GLENN JONES, “Fleeting” (Thrill Jockey, 2016)

glennGlenn Jones, post-rocker con i Cul de Sac, quando suona da solo, se la suona sullo stile di John Fahey (American Primitive Guitar, vale a dire lunghi e intricati arpeggi che mischiano tecnica folk e armonie più contemporanee). Imbraccia la chitarra classica e, talvolta, il banjo, in uno scantinato riconvertito a studio in una casa sul monte Holly nel New Jersey. Un posto ameno e per certi versi ancora selvaggio (la mia cognizione di causa deriva da una breve ma appassionata visita aerea via Google Maps), che al chitarrista ispira soprattutto note malinconiche, effusioni liriche e melodiche di delicata composizione struttuale, vale a dire, strumentali bucolici e solo apparentemente ruspanti (la fuga su banjo muto di “Cléo Awake” e la ninnananna folk “Cléo Asleep” sanno proprio di vecchia America), dall’umore parecchio introverso e addolorato.

Già in passato Jones aveva rivelato il proprio amore per la tradizione e le partiture essenziali. Ora però il concerto diventa ancora più intimistico: si accentua il solipsismo e la riflessività delle frasi musicali, mentre regredisce lo slancio comunicativo che aveva reso i suoi vecchi brani appetibili a un pubblico lontano dal folk puro. L’elemento più interessante del disco sta nell’atteggiamento mimetico, nel tocco di Jones che rievoca lo sciabordio dell’acqua (“Spokane River Falls”), l’attesa (“Gone Bedore”), lo sbocciare di un fiore (“Flower Turned Inside-Out”) e il passare del tempo (“June Too Soon, October All Over”)… Teoricamente, siamo a un livello abbastanza basso di estetica musicale, ma tecnicamente e poeticamente il risultato è buono. Godibile, soprattutto da spiriti romantici.

Pur apprezzandone l’umore generale e la coerenza concettuale, non è il tipo di album che consiglierei a prescindere. Magari procuratevelo per l’evenienza… Tipo il desiderio di astrarsi dal marasma cittadino, o una buona colonna sonora per la lettura di un saggio di Walt Whitman. La canzone che preferisco, però, è quella in cui il chitarrista infila qualche passaggio blues e lievissime dissonanze. Si chiama “In Durance Vile” e ha un andamento impressionistico e, per certi versi, tragico: un lento dosaggio di pathos, aumenta d’intensità solo con le pennate finali…. di sicuro il brano meno country della collezione.

65/100

(Giuseppe Franza)