HEROIN IN TAHITI, “Sun and Violence” (Boring Machines, 2015)

url-4La ricerca equivale a speranza, evoluzione, curiosità e intelligenza.
Potevano soggiornare sugli allori di un lavoro riuscitissimo e originale per il nostro italico pensare, invece la coppia romana formata da Valerio Mattioli e Francesco de Figueiredo ha voluto esplorare invece che bissare.
Death Surf”, esordio del 2012 è stato un perfetto flash creativo, un debutto compatto e ossessivo che ha creato una certa curiosità attorno al nome bizzarro ed evocativo degli Heroin in Tahiti. Revival futuristico, psichedelica drogata, addirittura Morricone alle prese con acidi. Tutte verità e tutte carte giocate alla prima manche. Allora cosa rimane in mano se hai bleffato? Un sacco di assi, in questo caso, perché bluff non era nemmeno fuoco di paglia.

Come dicevo in principio di recensione, però, ci vuole disciplina, idee, coraggio e soprattutto talento. Le idee sono partite andando a recuperare il lavoro già esistente di un certo Diego Carpitella, calabro romano che negli anni del dopoguerra ha condotto ricerche etnomusicali atte a portare alla luce più di 5.000 canti popolari italiani negli anni tra il 1952 e il 1958. Il talento è stato quello di attualizzare la tradizione della nostra terra, immaginando di musicare un’ipotetica pellicola che mette in scena un mondo alla deriva; questo a conti fatti è “Sun and Violence”, un colosso fruibile anche ai non avvezzi viaggiatori siderali, perché questa psichedelica è in continuo movimento e raccoglie, come in ogni viaggio che si rispetti, odori, sensazioni e contrastanti emozioni. Il tribalismo che si respira, in effetti, è tipico di chi riporta a casa un pezzetto di terra straniera, ma poi c’è il presente, l’odierno correre veloce, lo stanco respiro che ci fagocita incurante della nostra voglia di evasione.
Un disco fatto di contrasti, affascinante perché vive di ricordi navigando nel presente, un deformato mostro che, come una sirena, ci illude che la fuga sia l’unica via d’uscita. Dall’incedere orientale di “Salting Carthago, alle lame che si conficcano nel cervello della breve, strumentale “Absit Omen”, passando per la marcia western di “Black Market”, danzando nei riti voodoo di “Zatlath Aithas”, divagando nella eterea “Spinalonga” fino a ritrovarsi prima dispersi e poi accecati nel labirinto dei 12 minuti di “Continuous Monument” (siamo tutti un po’ debitori, volenti o nolenti,  alla natura e a Ummagumma) per  poi lasciarsi spaventare dall’urlo di “Superdavoli” che si libra in volo dolcemente, quasi come fumo, poi incede, ed è fuoco e poi quieta e il disco giunge, quasi al termine. “Costa Concordia” sigilla una marcia funebre su quello che è davvero il nostro paese. Un posto bellissimo baciato dal sole e intriso di stupida violenza.

85/100

Nicola Guerra