Cannes chiama Kalporz: 18 maggio 2015

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Arrivi a Cannes. La giornata è splendida, e non fa neanche troppo caldo. Ti premunisci pensando di goderti dieci giorni assolati ma temperati. Due giorni dopo piove, e neanche in maniera troppo leggera. Ti rifugi nei locali che si moltiplicano come i pani e i pesci di biblica memoria lungo la Croisette maledicendo il tuo ottimismo e pensando all’ombrello che hai immancabilmente dimenticato a Roma. Il giorno successivo è un sole accecante a farti bruciare la testa mentre aspetti un’ora in fila in attesa di poter entrare in sala… Ecco, la vita dell’accreditato a Cannes potrebbe anche essere ridotta solo a questo, una serie di file interminabili sempre esposto alle intemperie più diverse e impensabili. Dal solleone all’acquazzone.

Questa premessa è indispensabile per comprendere lo stato di frustrazione che può vivere chi riceve in dotazione un accredito stampa di ultima fascia. I cosiddetti “gialli” (dal colore dell’accredito) sono la categoria più sfortunata, ed è con un sospiro di sollievo che ogni volta mi ricordo di non farne parte. Ciononostante anche a noi miseri “blu” la vita non propone solo agi e confortevoli certezze, tutt’altro. La democrazia, parola dimenticata negli archivi del tempo qui al festival, la si torna a respirare quando ci si reca alla Quinzaine des réalisateurs, sezione collaterale in cui tutta la stampa, quale che sia il livello di appartenenza, accede in contemporanea alla sala senza distinzioni. È qui che sono tornato per dare una chance al fiammingo Jaco Van Dormael, regista con dalla sua un picco clamoroso (l’esordio Toto le héros, nel 1991), un’opera seconda furbetta (L’ottavo giorno, 1996) e un sorprendente silenzio durato tredici anni e terminato nel 2011 con l’interessante e ambizioso Mr. Nobody. Tocca ora al divertito e – spesso – divertente Le Tout Nouveau Testament, che ci svela come Dio abiti a Bruxelles, odi l’umanità e si diverta a metterle sempre i bastoni tra le ruote. Sua figlia, una bimba di dieci anni, ha però intenzione di smascherarlo, e manda un sms all’intera umanità informando ognuno della data della propria morte. Bizzarro quanto basta per attirare l’attenzione degli spettatori, ancora una volta il film mostra pregi e difetti di Van Dormael: un cinema costruito a tavolino, divertente ma paradossalmente ben più standardizzato di quanto si possa pensare. Alimenterà, questo è certo, un piccolo culto.

Chi il culto l’ha già fatto prosperare intorno a sé e alla sua arte è invece Kiyoshi Kurosawa, tra i maestri del cinema giapponese degli ultimi venticinque anni: Journey to the Shore (il titolo originale è Kishibe no tabi) è ancora una volta un film di fantasmi, tema portante del cinema di Kurosawa, che nasconde però una riflessione dolorosa, amara e tenera allo stesso tempo sull’elaborazione del lutto, sul senso di colpa e sull’accettazione della finitezza della materia. Umana e non solo. Meno compiuto di altri suoi titoli precedenti, Journey to the Shore conferma in ogni caso la statura autoriale di Kurosawa, regista criminosamente ignoto (o quasi) agli spettatori italiani.

A chiudere la giornata ci ha pensato invece un regista norvegese, Joachim Trier, che qui a Cannes presentò nel 2011 in Un certain regard l’interessante Oslo, 31. August. Dopo quattro anni, e con una co-produzione internazionale alle spalle, Trier approda nientemeno che nel concorso ufficiale, partecipando dunque alla corsa per l’assegnazione della Palma d’Oro. Difficile in realtà che un film come Louder Than Bombs (attenzione: gli Smiths non c’entrano nulla), che a sua volta ragiona sul lutto (ma attraverso coordinate completamente dissimili a quelle di Kurosawa), possa davvero dire la sua nel palmares finale, ma non si sa mai. Ad aiutare questa storia prevedibile, raccontata attraverso una regia ben costruita ma fin troppo esibita (con tanto di citazione in scena di Opera di Dario Argento), ci pensa il parco attori scelto per la bisogna: Isabelle Huppert, Gabriel Byrne, Jesse Eisenberg, David Strathairn. Tutti in parte e tutti i grado di assicurare al film una profondità emotiva e umorale che altrimenti verrebbe davvero a mancare. Ma Joachim Trier continua a promettere molto. Sperando che non resti una promessa inevasa…

Raffaele Meale