Swans + Pharmakon, Estragon, Bologna, 10 ottobre 2014

20141010_222718Gli Swans sono uno dei pochi gruppi della loro epoca, forse l’unico, in grado di invecchiare maledettamente bene. Nonostante inevitabili eccessi ed episodi ai confini del parossismo sperimentale, la rediviva creatura di Michael Gira resiste dignitosamente al rischio senilità. Anzi, gli ultimi due monumentali LP giunti dopo la formalizzazione della reunion ne hanno confermato il buon nome: “The Seer” e “To Be Kind” dopo il disco d’assestamento del 2010 “My Father Will Guide Me up a Rope to the Sky” il primo a nome Swans dopo 14 anni di silenzio. Due album monumentali, a modo loro diversi ed estremi, l’uno più etnico e mistico, l’altro più sporco e ipnotico. In piena tradizione con l’ineffabile percorso della band newyorkese che ha toccato e influenzato a modo suo i filoni più disparati del rock oscuro d’avanguardia, dal post-punk alla no-wave, dal gothic rock passando per il noise, senza alcuna caduta di stile. Più semplicemente gli Swans, marci e immarcescibili, precursori, avveniristici, contraddittori, ma ancora attuali e fondamentali per centinaia di artisti più o meno sperimentali.
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Ne è una prova recente Pharmakon, giovanissima artista di Brooklyn scelta – come già negli USA – da supporto e che abbiamo avuto la fortuna di scoprire e conoscere due anni fa proprio a Brooklyn, in un devastante show di spalla ai più pacati compari di etichetta Merchandise. Margaret Chardiet ha fatto strada, artefice di un cacofonico noise industrial accompagnato da urla demoniache che fanno da contraltare alla fisionomia da bionda innocua e timidina. Al secondo LP ufficiale per Sacred Bones, “Bestial Burden”, conferma la vena rumorista emersa in “Abandon” e nelle sue prime produzioni, spingendosi ancora più a fondo in lampi tra noise e death. Non soffre troppo la mancanza di contatto col pubblico (solitamente ama esibirsi vagando posseduta in mezzo al pubblico). Inquietante, spietata, concettualmente molto interessante per gli appassionati del genere (viceversa, di difficile digestione per i meno appassionati), apre la serata in un Estragon tristemente mezzo vuoto. I gusti saranno cambiati, i pienoni per band di culto nello stabile del Parco Nord fanno ormai parte del passato e molte di queste band sembrano più adatte a platee più intime, vedi le programmazioni dei più piccoli e centrali Freak Out o Locomotiv. Proprio al Locomotiv erano stati invitati Michael Gira e compagni negli ultimi due passaggi in Italia.
Pharmakon è solo un assaggio della lunga notte. Come sempre, quando si assiste all’inquietante cerimonia di Michael Gira e soci, ci si aspetta un live lungo, ipnotico e disturbante.
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L’esperienza di abbandono si dipana dalla mistica intro curata dal gong del vichingo polistrumentista Thor Harris (vedi tra i credits di Shearwater, Devendra Banhart, Lisa Germano, Bill Callahan oltre che The Angels Of Light di Gira) e al sempre più torvo Christoph Hahn alla schizofrenica steel guitar. Completano la formazione Christopher Pravdica, poderoso bassista-metronomo già nei Fluxus Information Sciences, l’imperturbabile Phil Puleo alla batteria (leggasi fondatore dei leggendari Cop Shoot Cop) e l’ultimo reduce della formazione degli albori, lo smunto Norman Westberg. Come previsto, nessun ripescaggio pre-2010. Si possono permettere di presentare tre “canzoni” nuove, a dispetto di due celebratissimi LP da 120 minuti ciascuno, gli ultimi. Gli Swans, fuggono da ogni logica convenzionale, così dalla lunghissima, ipnotica apertura da due accordi e rare variazioni al tema (“Frankie M”) arrivano fino alla fine delle due ore e passa di show chiudendo con un’altra devastante composizione inedita, “Black Hole Man”.
Nel mezzo un potente set ad altissimo volume che ripesca “Little God In My Hands”, il blues da Birthday Party industriali dell’ultimo album, dedicato alla memoria dello storico bluesman Chester Burnett aka Howling Wolf. Poi “The Apostate”, una delle angoscianti discese negli inferi dal capolavoro “The Seer” e poi ancora dall’ultimo la sincopata e desolante nenia pagana “Just A Little Boy”. Difficile mettere a fuoco flash, sensazioni e memorie che si accumulano durante il live. “Don’t Go” è l’unica tregua, l’unico conforto dalle tinte moderate dal retrogusto Godspeed! You Black Emperor che permette di respirare e di lasciar riposare i timpani. L’ormai sessantenne Gira è sempre più uno sciamano perfido e deviato, comunica pochissimo con il pubblico e con il resto della band cui non risparmia mai occhiatacce e sguardi fulminanti. Non si risparmia nemmeno contro una sparuta schiera di esagitati vogliosi di pogo cui riserva uno sputo e il minaccioso gesto del dito alla gola. Gli sventurati non avranno dormito sonni tranquilli, poco ma sicura. Gira è una figura che mette in soggezione quanto il muro di amplificatori che a mezzaluna occupano il palco, le sue invocazioni quando arrivano fanno raggelare il sangue. La ferocia inaudita e senza compromessi di “Bring The Sun” (una delle tracce del nuovo in cui ospita St. Vincent) è la degna chiusura di oltre due ore di incubi e distacco. Nella coda si infila appunto “Black Hole Man”, ma i sensi sono già andati e ormai potrebbe succedere qualsiasi cosa.

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Frankie M
Little God In My Hands
The Apostate
Just a Little Boy
Don’t Go
Bring the Sun / Black Hole Man

Foto della serata al link.

(Piero Merola)