DAMON ALBARN, “Everyday Robots” (Parlophone, 2014)

damon albarnChe qualcosa fosse cambiato lo si era capito nel 2007 con il progetto The Good, The Bad And The Queen: sulla soglia dei 40 anni il frontman di gruppi freschi freschi come i Blur e i Gorillaz si era avventurato in un progetto decadente che nulla aveva a che fare con il pop che lo aveva contraddistinto fino ad allora. Ora, sette anni più tardi, questo “Everyday Robots” può essere considerato una continuazione di quel discorso in altra forma: più personale, confidenziale, quasi confessoria. E ancora più matura. Se infatti anche in The Good The Bad And The Queen Albarn era solo un componente della band, seppur fondamentale, e doveva quindi amalgamarsi con personalità fortissime come quella di Simonon e degli altri componenti, la sua vera anima poteva rimanere ancora (un po’) celata.

In “Everyday Robots” invece non c’è più spazio per essere primus inter pares. Damon mette nero su bianco la sua personale visione attuale e non ci sono più gregari accanto, c’è solo lui. Un po’ come nella vita, che all’età di Damon gli amici hanno le proprie famiglie e non è più tempo del “gruppo”. Del resto l'”artista Albarn” non aveva nulla da dimostrare, lo si era capito da tempo quanta sostanza celasse il viso più sbarazzino dei ’90s. Non si era però ancora cimentato in questa veste da crooner e non si era messo così a nudo.

E il risultato è piuttosto stupefacente: uno spleen post-tecnologico in cui vengono utilizzati vari linguaggi e soprattutto vari strumenti, pianoforti jazzy e percussioni africane, qualche cassa digitale, molti cori (con le collaborazioni vocali di Brian Eno in “You and Me” e nella gospel “Heavy Seas of Love” e di Bat for Lashes” in “The Selfish Giant”), il tutto in un’ottica minimale e precisa. C’è un lavoro di sottrazione, più che di aggiunta, quasi a voler significare che la maturità porta in dote una maggiore nitidezza, una visione più lucida.

E’ importante “Everyday Robots”, perché attesta che Damon Albarn possiede una cifra stilistica parificabile a grandi artisti “solisti” che fin dall’inizio hanno messo la loro faccia e il loro nome stampato sui dischi. Fuoriclasse come Nick Cave, e non avremmo mai pensato – fino a prima del 2007 – di poter rimarcare le vicinanze tra due storie così diverse. E anche come Beck, altro personaggio dei Nineties comunque lontano anni luce, come sensibilità e provenienza, da Albarn, tornato anche lui quest’anno con un approccio spoglio ed essenziale. Con una curiosità: sia in “Everyday Robots” che in “Morning Phase” ci sono due brevi pezzi strumentali (“Parakeet” e “Seven High” / “Cycle” e “Phase”) che interrompono il discorso “verbale” dei vari cantati del disco, e si potrebbe pensare che in questa scelta si celi la vera maturità dei due.

Alle volte, più che tante parole, contano gli sguardi e i non-detti.

81/100

(Paolo Bardelli)

13 maggio 2014