VAMPIRE WEEKEND, “Modern Vampires Of The City” (XL, 2013)

Vampire_Weekend_-_Modern_Vampires_of_the_CityL’uscita di “Modern Vampires of the City” è stata preceduta da numerose anticipazioni, più o meno inerenti il contenuto dell’album, e più o meno in linea con le volontà dei Vampire Weekend: dalla copertina fake alla serie di clip con Steve Buscemi , molto divertenti ma marcati, in posizione di sgradevole evidenza, dal logo della American Express, e il rumore mediatico di fondo antecedente il vero e proprio ascolto non può non avere avuto un impatto significativo sulla ricezione del disco. Fenomeno amplificato dalle interviste rilasciate dalla band, evidente tentativo di imposizione di una lettura in qualche modo univoca dell’album, nella direzione, in particolare, di un affrancamento dalle ipoteche “Ivy League World Music” da sempre associate al nome di Ezra Koenig e Rostam Batmanglij. Difficile ammetterlo, in particolare per reduci waver che vedono nei Vampire Weekend il classico esempio di gruppo “privo di attributi”, si veda da ultimo Bobby Gillespie (che non si esprime esattamente in questi termini), ma l’operazione mediatica è stata senz’altro efficace.

Alla luce di tutto questo l’accesso al terzo album dei Vampire Weekend non può che essere accompagnato da un dubbio: sono riusciti i quattro a prendere congedo dalla tentazione di speculare su un modello che ha senza dubbio funzionato, a livello commerciale e non? Sono reali le ambizioni di produrre qualche cosa che sia distante dalle solite divagazioni global music, che nel più recente “Contra” mostravano chiaramente segni di stanchezza e cedimento? Possono infine, elaborare una leggerezza pensosa invece di negare, come fatto spesso nelle interviste degli ultimi mesi, l’attitudine che in fondo li ha caratterizzati durante tutto il corso della loro vicenda?

L’apertura di “Obvious Bicycle” è, da questo punto di vista, niente più che interlocutoria: appare chiara la tensione verso qualcosa di differente, verso la ricerca della bella forma piuttosto che del divertimento immediato. Intenzione confermata da “Unbelievers”, traccia strutturata al modo classico dei Vampire Weekend, segnata però da suoni sempre meno legati alle bastardizzazioni etnicizzanti del passato: la forma canzone non è mai stata così limpida, perfetta, e un po’ banale, in Koenig e compagni. Una attitudine da singer/songwriter che viene confermata in “Step”, la vera canzone “diversa” del disco, sviluppata attraverso suoni non così inediti, liriche accattivanti e dotate di ritmo ma, a sorpresa, evocative. “Diane Young” è invece, insieme a “Finger Back” il pezzo più retrivo e datato della raccolta, a partire dalla classica capacità di rilettura “brooklynese” di un approccio, in questo caso, soul o quasi, fino alla altrettanto caratteristica incapacità di incidere quando si alza il livello della dinamica: molto divertente, ma a tratti alla stregua di una cover-band dei Cani. Per altro fino a questo punto l’album mantiene un certo livello, compromesso dal vistoso calo che inizia con “Don’t Lie”: medesimi temi, analoga mancanza di efficacia, scrivere canzoni è mestiere nobile ma tremendamente difficile. Il manifesto e la conferma dei limiti complessivi dell’operazione compiuta con questo “Modern Vampires of the City” si trova in “Hannah Hunt” la quale, abbandonata del tutto l’immediatezza ludica degli inizi, mette a nudo le difficoltà dei quattro nel completare con successo una ballata tradizionalmente pianistica. La ricerca del pezzo “di grande portata” conduce in effetti ad uno zero a zero senza emozioni.

Come per cercare un rimedio, l’ultima parte dell’album contiene due tracce “all’antica”: il ritorno alle sonorità “global” di “Everlasting Arms” tra atmosfere talkingheadsiane e riferimenti a “Oxford Comma” e ad altri classici del primo album, è seguito dalla già citata “Finger Back”, cugina del vecchio singolo “Cousins”, pezzo molto riuscito in cui, abbandonate per un attimo le velleità e riabbracciata la Ivy League, si torna alle origini dei Vampire Weekend. E sembra che proprio qui si trovi il problema: non era possibile effettivamente replicare la formula da sempre utilizzata, altrettanto chiara era la necessità di cambiare, ma non si può negare che il mestiere dei quattro sia in realtà questo, che uno solamente sia il loro suono “d’elezione”. “Worship You” è invece tratta direttamente da “Contra”, impalpabile e probabilmente inutile come quell’album, mentre “Ya Hey” è il tentativo più avanzato di fondere la nuova tendenza con l’inconscio da festa delle scuole medie, da sempre cifra inconfondibile del gruppo. Ne viene fuori una canzone per preadolescenti inquieti che complessivamente non sembra premiare lo sforzo di Koenig e Batmanglij. “Hudson” e “Young Lion” concludono l’album con ulteriori approcci ad una composizione qualitativa risultando niente più che noiosi. Se in passato i Vampire Weekend erano il simbolo del divertimento e dell’intrattenimento si può oggi affermare con certezza che ci hanno davvero preso tutto.

Viene da chiedersi che cosa potrà restare del rock del primo decennio degli anni 2000, quale sarà la sua eredità: non che i Vampire Weekend possano rappresentare un’epoca, non ne hanno mai avuto non solo la possibilità, ma persino l’ambizione e la visione, sebbene certamente abbiano colto una esigenza diffusa, la ricerca di una definita attitudine in una precisa congiuntura. Devono avere significato dunque qualcosa. Ma se nel momento in cui, entro per altro chiari limiti, si pongono esattamente il problema di essere in qualche modo “significanti” ottenendo nient’altro che una perdita di freschezza ed una dimostrazione dei loro limiti, se, in altre parole, finiscono per non significare propriamente nulla, qualche domanda dovrà pur essere posta. In fondo non è scontato che questa sorta di “tradizione” non possa finire per somigliare alla fotografia scattata nel 1966 da Neal Boenzi che troviamo in copertina di “Modern Vampires of the City”: una New York affogata nello smog in cui tutte le vacche sono nere.

45/100

(Francesco Marchesi)

28 maggio 2013

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