TY SEGALL BAND, “Slaughterhouse”, (In The Red, 2012)

È risaputo ormai, il credo del “Do It Yourself” è tornato da qualche anno di moda, in particolare tra i musicisti della bulimica scena noise-pop d’oltreoceano. Tra le folte schiere d’innumerevoli band-aborto e qualche giovane astro nascente (No Age e Japandroids su tutti), ha cominciato a farsi strada da un paio di anni un polistrumentista proveniente dall’Orange County, che si firma con il moniker di Ty Segall. Se c’è qualcuno che dell’etica DIY ne ha fatto un vero e proprio credo, questi è proprio il musicista californiano, che può contare già su moltissime pubblicazioni, tra cassette, 45 giri, ep ed album veri e propri.

Dall’uscita dell’esaltante “Goodbye Bread”, datata luglio 2011, la carriera di Ty Segall ha subito una netta e meritata impennata. Il nostro eroe non si è seduto sugli allori, anzi, ha premuto ancor di più sull’acceleratore, dando alle stampe altri due album più una raccolta di singoli, in attesa della quarta release in un anno, prevista per l’autunno.
Dopo la virata decisamente psych intrapresa nella più che soddisfacente collaborazione con i White Fence, Ty Segall è tornato subito in studio con la sua tour band, dando vita a “Slaughterhouse”.
In questa sua ultima fatica l’artista americano recupera l’immaginario acido e distorto degli Stooges (Pitchfork ha tirato in ballo addirittura “Funhouse”), fondendolo con fumose fascinazioni shoegaze e tonnellate di etica garage, dando così vita ad un’opera chiassosa e nostalgica.

Tormentando i suoi pedali fino allo sfinimento, Ty Segall imbastisce un muro di distorsioni da far impallidire Olivier Ackermann, impreziosendolo spesso e volentieri con hooks quasi mascisiani, come nell’incendiaria “I Bought My Eyes”. Tutte le volte che la tempesta di feedback incrocia melodie killer l’album sembra poter decollare (ascoltare per credere l’elettrizzante “The Tongue”), quando però lo stordente marasma chitarristico prende il sopravvento su tutto il resto, ecco che il motore di “Slaughterhouse” finisce per incepparsi. Questa incompiutezza lascia l’amaro in bocca davanti a gioiellini come “Tell Me What’s Inside Your Heart” (che fa pensare alle ultime fortunate imprese dei Thee Oh Sees), e a tratti si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un disco più ostico di quanto sarebbe dovuto essere nelle intenzioni iniziali.
Ty Segall è senza dubbio un artista completo ed eclettico, ma l’eccessiva sicurezza nei suoi mezzi lo porta a commettere dei piccoli errori di superbia, che minano sensibilmente la struttura di questo suo ultimo album; impossibile spiegare altrimenti i dieci minuti di masturbatorio fuzz del brano di chiusura (“Fuzz War”, per l’appunto), pezzo inesorabilmente destinato allo skip.

In definitiva “Slaughterhouse” tradisce le attese di tutti quelli che si aspettavano un “Goodbye Bread” atto secondo, ma si merita un voto largamente sopra la sufficienza per una manciata di pezzi godibilissimi, che basterebbero da soli a fare la fortuna di numerose band garage. Aspettando con trepidazione il suo prossimo album autunnale, non ci resta che incrociare le dita: manca poco a Ty Segall per diventare davvero grande.

67/100

(Stefano Solaro)

25 luglio 2012

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