LOU REED & METALLICA, “Lulu” (Universal, 2011)

Non c’è nulla di più penoso della prevedibilità aritmetica. Un chilo di patate più un altro chilo di patate è uguale a due chili di patate. Differente è la sintesi, la reazione: quando due elementi in rapporto danno vita a qualcosa di imprevedibile o comunque diverso dalla ovvia somma delle parti. Così, quando Lou Reed suona insieme ai Metallica e preso dall’entusiasmo, o dalla disperazione, o dall’indolenza (e chi lo sa!), decide di produrre insieme a questi un concept album ispirato alle tragedie di Frank Wedekind, uno s’immagina la somma delle parti e pensa «che cafonata!»; poi ci si ricorda della Piccola Logica di Hegel e delle poche nozioni di chimica organica apprese al liceo e si spera in una sintesi, in un fiore nuovo e sensato, in puro ossigeno che possa venir fuori dalla dozzinale anidride carbonica, dalla luce e da uno sputo d’acqua, o in un risultato che sia sviluppo e inedita complessità derivante dal processo di mediazione. E invece no.

“Lulu” suona esattamente come un’addizione del Lou Reed verboso e grottesco dell’anzianità e dei Metallica che provano a suonare come una cover band dei Metallica e poi come una brutta copia dei The Jesus Lizard, fallendo in entrambi i casi. Dieci tracce, e l’unica decente è la prima, “Brandeburg Gate”, un crescendo spaventevole dal contenuto laido, di cui salvo il fatto che si citi Karloff: “I would cut my legs and tits off when I think of Boris Karloff and Kinski in the dark of the moon…”. Il resto del disco suona tamarro (atroci gli episodi di “The View” e “Mistress Dread”) e parodistico (i Metallica ci provano a essere sperimentali e Lou Reed ci prova a rifare “The Raven”, ma il metal è disgiunto dalla vera sperimentazione praticamente da sempre, e la poesia si è emancipata dal canto dal secolo della lirica provenzale) e tanto innocuo quanto è il desiderio sulla carta di non esserlo.

Certo, siamo in un ambito di musica extra-colta e non dovrebbero scandalizzarci le vacuità e i progetti senza senso, e poi sotto sotto si è sempre saputo che Lou Reed era un po’ tamarro. Ha avuto i suoi momenti felici e forse ha davvero incontrato o incarnato lo Zeitgeist. Ma ha già cantato la sua Femme Fatale, già descritto in modo assoluto i sentimenti di sadomasochismo in “Venus in Furs”, già sconvolto il pubblico pop con le dissonanze di “Metal Music Machine” e già prodotto diversi dischi-recital in cui giocava a fare il vate. Questo capitolo era evitabile. E, come era solito concludere il tipo barbuto dei Tretré, “a me, m’ par na’ strun…”

35/100

(Giuseppe Franza)

9 novembre 2011

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