WILCO, “The Whole Love” (dBpm, 2011)

Wilco una volta era carne per aneddoti: una storia travagliata e avventurosa di quelle che fanno la gioia di storiografi e cultori di band di (ehm) culto. Nel 2011 Wilco è un brand: un marchio che fa vendere sandwich, birra, biciclette e persino spettacoli pirotecnici. Ciò è possibile perché la band è diventata una cosa solida e pacificata che non vede cambiamenti tra le proprie fila dal 2004, e si presenta con regolarità svizzera agli appuntamenti discografici e ai tour mondiali.

Questo detto senza ironia, e non credo che ci sia nulla di intrinsecamente malvagio nella markettizzazione. Il loro prodotto principale, beninteso, resta sempre la musica, garantita ora persino da una etichetta fonografica tutta loro, la dBpm, dentro a cui i Wilco cercano di dare continuità e coerenza a tutto ciò che hanno rappresentato in questi anni, senza schematismi o semplificazioni in nome della vendibilità. Impresa tutt’altro che semplice, perché il marchio Wilco ha significato nel tempo cose diverse che vanno dall’alt. country al power pop, dalle inquietudini elettroniche alla rielaborazione del rock classico.

Jeff Tweedy non si tira indietro, rassicurato e galvanizzato dai formidabili musicisti che sono i Wilco di oggi: “The Whole Love” tradisce innanzitutto un mestiere eccelso e forse ancor più che in passato una rilassata confidenza in esso, una voglia di suonare a cui viene dato libero sfogo anche a costo di qualche sbavatura. L’album risulta così vario e curiosamente diseguale, forse meno focalizzato del precedente “Wilco” ma capace di qualche sorpresa in più.

L’apertura è stupefacente: “Art of Almost” è uno schiaffo a coloro che gridano all’imborghesimento della band: schegge di ritmica radioheadiana, la voce di Tweedy che irrompe come a interrompere un esilio, una distanza, mentre piano e basso combattono contro rumori statici; quando tutto sembra finito, una coda strumentale furiosa colpisce a tradimento e rischia di stendere l’ascoltatore ad album appena iniziato.

Le aspettative per un album avanguardista però vengono immediatamente tradite, perché il piatto forte è un pugno di canzoni pop di fattura sopraffina in cui convivono distorsioni garage assieme a cori e vibrafoni da costa occidentale (“I Might”, “Dawned on Me”). In particolare il singolo “Born Alone” sembra catalizzare alla perfezione le migliori energie in campo: raccontare la solitudine di fronte alla vita e la morte nella forma di una canzone pop deliziosa che finisce in un vortice strumentale disturbante è una di quelle cose che Tweedy riesce ancora a fare, supportato dall’agile sezione ritmica di Glenn Kotche e John Stirrat e dallo sturmndrang chitarristico scatenato da Nels Cline.

C’è poi posto per i brani più tradizionali, ed è forse qui che “The Whole Love” brilla di meno: ballate costruite su tenui arpeggi acustici che restano tra il bozzetto malinconico e il brano compiuto, seppur brani come “Sunloathe” e “Red Lung”siano impreziositi da atmosfere cesellate alla pedal steel guitar e alle tastiere. C’è poi il divertito omaggio alla Chicago degli anni ’20 di “Capital City” e il waltz quasi conservatore di “Open Mind”.

Certo, esercizi di stile: ma “The Whole Love” tiene in serbo per il finale l’ultima sorpresa. “One Sunday Morning” riporta al Tweedy più dolente e intimista, quello che lascia cadere parole pesanti su tappeti sonori rarefatti: il racconto di una ferita mai rimarginata fra un padre e un figlio si stempera in un delicato acquerello sonoro che oltrepassa i dieci minuti e sfuma in un finale sommesso, quasi pudico.

Wilco sarà anche diventato un marchio, ma non è McDonald’s: è una di quelle vecchie marche da Carosello a cui sei affezionato, e che ti sanno ripagare ancora a ogni nuovo acquisto.

70/100

(Stefano Folegati)

18 ottobre 2011

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