EDDIE VEDDER, “Ukulele Songs” (Universal, 2011)

Indissolubilmente legato alle atmosfere selvagge di un’America vestita di nero e filigrana, lo sguardo incantato e fuori dal tempo, Eddie è di nuovo il roader menestrello che s’incammina per le valli e le spiagge della California col suo inseparabile ukulele, cogliendo istanti, tenendoli stretti. Il leader perlato che sale sul palco poco prima della band, con chitarra e armonica, come a mettere in chiaro l’umanità delle sue intenzioni. L’orfano di un padre che per anni ha creduto amico di famiglia, il cantore di terre estreme, di una società, razza folle, che si augura non si sentirà sola senza di lui. Chris McCandless parla attraverso le sue parole, “Into the wild” diviene un pretesto per condividere tormento e meraviglia di un clandestino dei nostri tempi. La voce, calda e intensa, è il mezzo con cui Eddie sa mostrarsi ogni volta sincero e convincente, oltre le storie, oltre la musica, lo strumento che più di tutti rapisce ed emoziona.

“Ukulele Songs” è un nuovo appassionante viaggio ai margini del caos delirante, sedici istantanee con cui Vedder ci mostra ancora la sua verve nostalgica e sentimentale. L’impatto rispetto al precedente “Into the wild” è di certo meno incisivo, il tono resta più che altro lo stesso per l’intera tracklist, niente slanci estatici da lupo dell’Alaska, ma l’omogeneità che si respira qui fa dell’album un’esperienza alienante e ipnotica, un momento (35 minuti ca.) che diviene indispensabile all’esistenza. Voce e ukulele, nient’altro, non serve. Giusto l’intervento su due tracce da parte di artisti quali Glen Hansard (su “Sleepless nights”) e Cat Power (su “Tonight you belong to me”), poi tutto rimane costante, e in certi casi non è per nulla un male, l’intimità è un lusso per pochi. Uno dei pochi è Mr. Vedder.

L’album, anticipato dall’uscita a marzo del singolo + videoclip “Longing to belong”, si apre con una vivace cover dei suoi Pearl Jam “Can’t keep”, prosegue toccando le corde dell’animo sensibile con ballate come “Sleeping by myself”, “Without you”, “More than you know” e “Goodbye”: l’atmosfera è posata, un appartamento sgombro con pacchi e bagagli da disfare, un fragile prezioso istante prima di riemergere e riprendere il proprio cammino. “Don’t mind me, just let me be. I can’t play the part I’m alright, it’s alright It’s just broken heart” sono i versi della sesta traccia: “Broken heart”. In seguito i nove secondi di “Hey Fahkah” più che una falsa partenza sembrano un simpatico monito a chi pensa che il buon vecchio Eddie, uno dei leoni di Seattle, si sia un po’ rammollito, lasciandosi definitivamente alle spalle le gloriose arrampicate sulle impalcature live, le cause politiche per i prezzi dei biglietti dei concerti, le uscite in surf e gli impeti creativi di “Ten”. In realtà quest’uomo, classe 1964, pare starsene semplicemente sul fondale di un mare agitato e che ancora oggi continua a cavalcare con la sua tavola. “Dream a little dream” è la cover che chiude questo particolare trip, e in cui Vedder dà pieno sfoggio delle sue doti baritonali in modo profondo e ironico, lontano da tutte le preoccupazioni: “Sweet dreams till sunbeams find you Sweet dreams that leave all worries behind you But in your dreams whatever they be Dream a little dream of me”.

70/100

(David Capone)

14 giugno 2011

1 Comment

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *