THE ANTLERS, “Burst Apart” (Frenchkiss, 2011)

THE ANTLERS, "Burst Apart"Peter Silberman non ha una faccia allegra. Non è esattamente l’aggancio giusto per entrare nel giro dei party più cool di Brooklyn. A soli ventun’anni ha deciso di chiudersi in un isolamento forzato. Un anno e mezzo da latitante sociale senza vedere anima viva. Recluso in casa senza i genitori partorisce “Hospice”. Un concept album semi-autobiografico su una relazione tra un uomo e una malata terminale. Tra atmosfere del Bergman di “Persona” e intrusioni di Sylvia Plath. Altro che party, insomma. Depressione tutt’altro che latente per l’anima degli Antlers, nome del suo progetto ispirato dal pezzo di The Microphones.

Così d’incanto, lontano dai lustrini hipster delle frangette retrò e dei wayfarer, dal buio di una cameretta esce fuori un disco incredibilmente discontinuo con le atmosfere easy e superficiali di molti suoi coetanei. A tratti si scivola nel parossismo emotivo per i toni tra l’elegia e lo psico-dramma, ma, dopo due anni di fredda e quanto mai dolorosa metabolizzazione, non si può che dare ragione a chi qui su Kalporz l’aveva sistemato con cura sullo scaffale dei grandi classici degli Anni Duemila.
Il successo sorprendente di quello che poi era il terzo album di Silberman sembra caratterizzato dalla medesima catarsi della storia al centro del concept. In una rinnovata fiducia nelle relazioni sociali, Peter rende The Antlers un trio consolidato fatto di venticinquenni che vanno in tour mondiale, si confrontano, scrivono insieme, escono a bere la sera, duettano con assoluti cazzoni quali Alan Palomo aka Neon Indian. Tutto con distacco e moderazione. Il seguito “Burst Apart” viene lanciato praticamente per intero dal vivo (esclusa la strumentale mini-suite western “Tiptoe”) durante la più influente rassegna di musica e arti degli States, il SXSW di Austin.

E, inutile negarlo, lo spleen spirituale e intimista di “Hospice” cambia volto. Gli arrangiamenti, meno epici e orchestrali, si avventurano in un’algido nebbione sintetico. Gli Antlers si allontanano coraggiosamente dai grandi classici sui erano stati accostati per atmosfere e predisposizione all’inno. Sebbene l’ideale prologo “I Don’t Want Love” e il sangue black che scorre vivo e acceso nella ballad-epilogo “Putting The Dog To Sleep”, annichiliscano ancora come i salmi elettrico-orchestrali degli Arcade Fire. In “Burst Apart” il pathos esplosivo e liberatorio che si incuneava nei plumbei scenari da ospizio fa restyling.

Sono i synth più che le chitarre o i fiati a riempire gli spazi lasciati sguarniti dall’ammaliante falsetto di Silberman. Le sinuose fascinazioni notturne di “French Exit” e “Every Night My Teeth Are Falling Out” affiancano imprevedibilmente gli Antlers a nuovi eroi del revival wave quali Wild Beasts e Twin Shadow. Le trame chitarristiche incastonate con gusto cinematografico tra rumori di fondo, loop e sobrie diavolerie digitali, scomodano invece inevitabili paragoni coi Radiohead.
Le radici folk che hanno sempre costituito un solido punto di riferimento per il controverso compositore newyorkese (su tutti i Neutral Milk Hotel), sembrano rimaste da qualche parte chissà dove nel nido del cuculo. “Parentheses” è scossa da ritmiche e sonorità voluttuose affini ai Portishead. “No Widows” e “Hounds” sono una magistrale attualizzazione degli onirici crepuscoli dei Cocteau Twins. E poi la voce sempre a un passo da eccessi patetici, ma mai e poi mai oltre quel pericoloso passo falso. E così decisiva nel caratterizzare il sound rendendolo indiscutibilmente un sound alla The Antlers, anche quando in “Rolled Together” certi sentori allucinogeni farebbero rewind lungo le estasi mistiche di Flaming Lips e Spiritualized.

Il distacco post-romantico e aristocratico di “Burst Apart” scalda quanto l’uguale e contrario coinvolgimento emotivo del capolavoro “Hospice”. Per gusto compositivo, qualità delle canzoni e voce, The Antlers si confermano con pochi eguali nella nuova scena statunitense.
Sì, qualcuno ora forse sobbalzerà dalla sedia, ma ascoltando “Hounds” e “Corsicana” ci si imbatte nello spettro impalpabile di un Jeff Buckley dei nostri giorni. Dissociato, rassegnato e senza grandi pretese.

80/100

(Piero Merola)

18 maggio 2011

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