SOUNDGARDEN, “Live On I-5” (Universal, 2011)

Gli eroi son tutti giovani e belli, puri, candidi e senza macchia. O almeno così dovrebbero rimanere.

Ecco perché abbiamo storto il naso per la temuta reunion dei ‘Garden. Chissà che frutti darà, a lungo termine. Intanto dopo un inutile cofanetto uscito lo scorso anno, ecco che i nostri tornano a passare tra i banchi col cestino delle offerte per raccogliere spiccioli. Lo fanno con un live e colmano una lacuna sospetta (fatta eccezione per bootleg e VHS di inizio carriera). Temevamo da tempo infatti che la mancata uscita di un album dal vivo volesse significare l’occultamento di un lato troppo debole per una band di tanto spessore. I sospetti vengono confermati da queste registrazioni del ’96 saltate fuori dopo quindici anni di polvere nei cassetti. Togliamoci subito dalla scarpa il sassolino di un paragone tanto banale quanto sacrosanto: “Live On I-5” si polverizza al confronto, tanto per rimanere in quel di Seattle, con un “Live On Two Legs”, ma anche con un “From the Muddy Banks Of The Wishkah”, pure discutibile come operazione commerciale, ma inattaccabile per furia e splendore.

Va da sé, non è un problema di repertorio, quasi del tutto eccezionale. Già la prestazione strumentale, anche se l’impasto Sheperd-Thayil-Cameron è denso, fangoso e mugghiante, non riesce ad uscire dalle casse potente come vorremmo, vuoi per la mancanza di scarti ed esplosioni, vuoi per le chitarre penosamente coperte dalla predominanza totale del raglio d’asino di un Cornell totalmente incapace di mantenere dal vivo quanto promesso su disco.

Il problema risiede quasi tutto in un cantato catarroso, slabbrato e indisponente. Il ruggito pop di una magnifica “Outshined” diventa un lamento cirrotico, il grido di battaglia di “Rusty Cage” una lagna stonata e sconclusionata. Un piagnisteo svogliato violenta le splendide invenzioni soniche di “Head Down”, facendo una figura ignobile. E d’accordo che la versione in studio di “Slaves & Bulldozers” è inarrivabile, ma qui sembra di sentire mia zia dopo che si è acciaccata un dito col martello. Non è questione di tecnica, ma di impegno ed emozione.

Cornell canta male, duole ammetterlo. Delude sentirlo arrancare e sprecare su palco tutta la tensione dei brani come non riuscirebbe nemmeno a De Gregori, per dire uno che se ne intende. Se a questo ci sommate le grida del pubblico femminile in visibilio tra una canzone e l’altra, il quadro inizia ad assumere tinte ridicole. Uniteci una batteria fragorosa da stadio ed avrete l’impressione di una pantomima da miserabili tromboni di hard rock giurassico anni ’70.

Non aiutano le cover: un’anonima e sommessa “Helter Skelter” viene sfruttata solo come intro per l’enigmatica “Boot Camp”, “Search And Destroy” viene invece slavata da una resa (nel senso di arrendersi) punkettona e banalotta.

Il quadro non è per niente roseo e si salva ben poco, se vogliono spillarci ancora qualche soldo devono metterci almeno un po’ di impegno, invece di propinarci oggi quello che non avrebbe avuto diritto di cittadinanza a metà anni ’90. Battere cassa con una schifezza del genere, in un periodo di magra per il mercato discografico, è un delitto che non va perdonato, anche se per lo meno non c’è l’aggravante della necrofilia come nel caso di Doors, Joy Division, Nirvana e altri.

Per noi i ‘Garden sono un’altra cosa. Quasi quasi vado a rimettere su “Badmotorfinger” e faccio finta di nulla.

30/100

(Lorenzo Centini)

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4 aprile 2011

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