“The Suburbs”, l’energia di chi non si arrende al grigio

A volte capita: sbatti contro quasi per caso ad alcuni dischi, o ad alcuni libri, che raccontano alla perfezione le giornate che stai vivendo. Solo, sanno farlo meglio di te. E poco importa che stavolta la casualità sia stata relativa: ignorare il nuovo disco degli Arcade Fire sarebbe stato come far finta di non vedere il classico elefante rosa nel salotto.
Scrivo queste parole da un luogo talmente bello da sembrare irreale: in mezzo alle montagne, completamente isolato dal mondo. Sotto di me, una valle lunga, che finisce nella rotondità perfetta di un golfo. Nelle giornate serene, ti sembra quasi di toccarlo, il mare, da quanto è vicino. Il profumo della resina dei pini. Il fruscio del vento tra gli alberi. Non c’è altro, in questo silenzio perfetto.
Quando ero piccolo, passavo qui tutte le mie estati. Adesso è perfetto per diventare nostalgici, per commuoversi al ricordo di com’erano le cose, per pensare a come sono cambiate.
Quella leggerezza di quando correvi da un angolo all’altro e la stanchezza non esisteva, ora è un ricordo lontanissimo. Un rimpianto lieve. Il futuro sembrava enorme, e potevi dargli la foggia che volevi. Chissà quand’è che le cose hanno iniziato a cambiare, quando gli entusiasmi sono diventati insipidi.
Dicono che questo sia “il secolo delle passioni tristi”. Hanno ragione. Solo, non lo avrei mai immaginato. E arrivare qui, nel regno di quando tutto era diverso, fa male. Ma non molto: un male lieve, un piccolo fastidio, una piccola nuvola di disillusione intorno alla testa che puoi anche riuscire a ignorare.
Ascoltando “The suburbs”, mi è sembrato di non essere l’unico a sentirmi così. Non sono niente altro che un uomo moderno ingoiato dalla fretta, mi cantano i coniugi Butler. Sempre immerso nel rumore, col sogno irrealizzabile di avere una stanza vuota tutta per me. Quelle periferie (quei paesi dove non succede mai nulla) da cui sognavamo di scappare quando eravamo piccoli, ora sono diventati gli stessi posti verso cui guidiamo esausti alla fine dell’ennesima giornata di lavoro. Sognavamo di fuggire a gambe levate da lì, ora quella prigione è diventata il nostro rifugio, il posto dove nasconderci per qualche ora. Guidiamo tristi e lenti attraverso distese enormi, non sognando altro che una tregua.
“The suburbs” racconta tutto questo. O forse, sono io ad avervi letto dentro i miei pensieri, chi lo sa. Eppure, in qualche modo questo disco riesce a rompere questo velo grigio: la senti tra le note, la stessa forza misteriosa che trasforma i concerti degli Arcade Fire in un’esperienza di gioia pura. E’ retorico, a volte eccede perfino: parlare dell’alienazione dell’uomo moderno non ha molto di originale, ma intitolare una canzone “City with no children” e suonarla con la grandeur di chi mira ad occupare gli stadi non appena gli U2 si faranno da parte, beh, forse è troppo.
Ma in queste canzoni c’è l’energia di chi non si arrende al grigio. C’è la stessa vitalità di (ehm) “Funeral”, senza l’ampollosità di “Neon Bible”. E’ ridicolo da scrivere, ma è speranza, quella che senti tra gli archi pomposi e il rigonfiarsi distorto di “Empty room”, o in “The sprawl II (mountains beyond mountains)” – quel genere di sublime schifezzuola da anni ’80 electro-pop che agli Stars viene maluccio e che gli Arcade Fire, invece, rendono perfetta.
“The suburbs” mi ha raccontato questi miei anni di spleen e gioie mai assolute. Mi ha spiegato che non vivo niente di diverso da tutti gli altri. “Smettila con quel tuo sorriso triste” sussurra Win “e prova a ripartire”.

(Daniele Paletta)

05 agosto 2010

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