MIKE PATTON, Mondo Cane (Ipecac, 2010)

La notizia è che Mike Patton se ne esce con un tributo alla canzone italiana periodo ’50-60. Patton chi, quello-dei-Faith-No-More?? Accidenti, non c’è che dire: se fossimo di quegli sciagurati ascoltatori rimasti con l’orologio fermo agli anni ’90 ci sarebbe di che restare a bocca aperta. In realtà per chi ha continuato a seguire il californiano ben oltre la fase – diciamo – di maggiore esposizione mediatica, la circostanza, seppur nella sua indubbia bizzarria, finisce semmai per suscitare una stuzzicante e sacrosanta curiosità ma nulla più, tanta è ormai l’abitudine alle stravaganze discografiche partorite in epoca recente dalla fertile mente del buon Mike.

Sì perchè smessi i panni della rock star di successo, il Nostro è da considerarsi a pieno titolo uno dei più eccentrici, imprevedibili, prolifici e geniali personaggi degli ultimi due decenni, alla continua ricerca di improbabili collaborazioni e sempre pronto a dare libero sfogo alla propria curiosità e inesauribile fantasia creativa. Insomma, niente bocca spalancata perchè Micheal Allan Patton è un Pazzo, sissignori, ma lo sapevamo già da tempo; un uomo che del resto mai si è premurato di assestarsi su livelli di disdicevole ordinarietà (ricordiamo che gli oltranzismi dei Mr. Bungle sono addirittura antecedenti all’ingresso nei Faith No More) nel passare con disinvoltura dal ruolo di frontman sui generis nell’era appunto FNM agli assetti doom-metal del supergruppo Fantomas, dalle schizofrenie alternative dei Tomahawk fino alle frequentazioni jazznoise col poliedrico Zorn, dai funambolici progetti come Peeping Tom alle collaborazioni con Bjork e Dan The Automator e tanto altro ancora; nel continuo irrequieto confrontarsi con un’infinita varietà di influenze modelli e interessi, si chiamino essi (avant)pop o sperimentazione vocale, avanguardia o colonna sonora da cult-movie (lo stesso “Mondo Cane” è a sua volta il titolo di un celebre film documentario del ’62 diretto da Cavara/Jacopetti/Prosperi).

Se a ciò si aggiunge il fatto che il signore in questione ha vissuto per anni in Italia ed ha sposato una nostra connazionale, beh, allora credo che la faccenda sia chiara per tutti e non ci sia neanche bisogno di ricordare che dal vivo Mike era solito proporre una versione di “24.000 baci” già coi suoi Mr. Bungle o che nel 2005 ha voluto rendere omaggio a Morricone con un disco intero, “Crime and Dissonance”. Ancor minore la sorpresa per coloro i quali abbiano avuto la fortuna di assistere ai live europei degli ultimi anni (fra cui anche la suggestiva data a Salsomaggiore Terme), succulenti anteprime di questo disco e momento in cui nasce il desiderio di realizzare un vero e proprio album dedicato alle belle canzoni italiane di una volta. Coadiuvato da strepitosi musicisti nostrani (Roy Paci e il caposseliano Stefana su tutti) e da un’intera orchestra di trenta elementi, Patton ha portato in giro il suo progetto e ora, dopo qualche ritocco in sede di post-produzione, ci regala 11 chicche selezionate dal suo vasto e collaudato repertorio. Si va dai deliziosi arrangiamenti del classicissimo “Il cielo in una stanza” alla gangsta-rutilanza di Buscaglione (“Che Notte!”), tanto per assecondare le proverbiali tentazioni crooneristiche dell’americano; doveroso e puntuale lo stazionamento in zona-Morricone con la ripresa di “Deep Down” (tema dello psichedelico “Diabolik” di Bava) e “Quello che conta”, regalata dal Maestro ad un superbo Tenco per un’altra pellicola, “La Cuccagna”.

Per quanto sia leggera è in certi frangenti ovviamente avvertibile l’inflessione anglofona nella pronuncia (a dire il vero) quasi inappuntabile di Patton, anche se risulta scongiurato alla grande l’effetto Mal-dei-Primitives – tanto per capirci – perlomeno fino a quando non ci si avventura nei più insidiosi territori della canzone napoletana (“Scalinatella” ha comunque in sé una buona dose di ironia). Ma accanto a brani più noti come la trascinante “20 km al giorno” di Arigliano o “Senza Fine” a bissare Paoli, troviamo pure episodi minori quali “Ti offro da bere” di Morandi, “L’uomo che non sapeva amare” di Fidenco e il garage-rock “Urlo Negro” degli italianissimi The Blackmen, a certificare – se mai ve ne fosse bisogno – lo status di ottimo conoscitore della materia. In definitiva quello che esce ora per la personale Ipecac è un disco gradevolissimo oltreché impeccabile dal punto di vista strumentale, interpretato da una voce eccezionale con incredibile passione, con estrema devozione e senso della misura, laddove altri comuni mortali avrebbero potuto facilmente inciampare nell’ovvio e nel forzato se non addirittura nel ridicolo macchiettismo.
Nulla di tutto questo: Mike Patton è abituato ai colpi di genio e riesce a far centro anche stavolta.
Non per niente è nato in quel di Eureka.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *