JOHNNY CASH, American VI: Ain’t No Grave (Lost Highway, 2010)

La fine che si avvicina l’Uomo in Nero incontra la Nera Signora il cerchio che si chiude il rintocco delle campane cieli plumbei squarciati da lampi di luce bassi profondi perché profonda si scava la fossa. L’attesa di una nuova rinascita. There Ain’t No Grave Can Hold My Body Down. Ecco allora che per l’ultimo atto anche le immagini di mani rugose e di volti in penombra lasciano il posto a quella solare e spensierata di un bimbo sorridente, un piccolo Johnny nella sua fanciullezza affamata di vita e di speranze.

Sette gli anni già trascorsi dal giorno della sua morte, sette probabilmente le vite vissute da quella che senza dubbio è una delle più grandi leggende della storia musicale americana, uomo capace di risorgere a nuova vita anche in senso artistico nell’ormai celebre incontro di metà ’90 col produttore Rick Rubin incontro dal quale scaturiranno le famose registrazioni dell’ultimo Cash, all’epoca sbattuto fin troppo frettolosamente nel dimenticatoio delle vecchie glorie bollite e demodé destinate alla rottamazione per mancanza di adeguato appeal commerciale. Saranno invece sei, appunto, le registrazioni della serie “American”, dal primo volume del 1994 fino al perfetto lascito testamentario costituito da questo “Ain’t No Grave” passando per gli episodi II, III IV e V neanche fosse la saga di un vecchio e tenace Balboa sempre più logoro nel fisico, braccato e incalzato dall’ombra lunga della morte e per questo desideroso di consegnare quanti più messaggi possibili al proprio pubblico di fedeli. Un pubblico che si è anzi allargato nel corso dell’ultima decade a comprendere anche le generazioni più giovani, attirate fra l’altro dalla crescente attenzione dei media nei confronti del redivivo uomo dell’Arkansas (ricordiamo il successo del video per la Nine Inch Nails cover di “Hurt” – addirittura in nomination quale video dell’anno ai MTV Awards -, la realizzazione di un film sulla sua vita, i tanti omaggi degli ultimi tempi).

Quello appena uscito è dunque il secondo disco postumo di Johnny Cash, testimonianza delle ultimissime incisioni (coeve a quelle del precedente “A Hundred Highways”) realizzate prima della scomparsa avvenuta nel settembre del 2003, giusto pochi mesi dopo l’addio all’amata moglie June Carter. Niente a che vedere, sia chiaro, con le consuete paccottiglie fatte di pezzi live, alternative takes o inediti d’accatto; nessun avanzo di magazzino, qua dentro, nessun barile da raschiare. Alla larga dunque i parvenu dell’ultim’ora perché anche la cover rifugge adesso il sussulto dell’immediata riconoscibilità (un marchio di fabbrica le magistrali riletture di brani pescati sapientemente dal panorama rock di Depeche Mode, U2, Beck, Soundgarden) mentre il suono si fa ancora più scarno, il canto più incerto, l’incedere più doloroso. Uno solo il brano originale, ispirato a una lettera ai Corinzi, i versi biblici (“Oh death, Where Is Thy Sting?/Oh Grave, Where Is Thy Victory?”) come parametro attraverso cui decifrare al meglio l’immaginario qui rappresentato, intimo discorso definitivamente incentrato sui concetti di vita e di morte, di speranza e di redenzione.

Forse di minore impatto e immediatezza, si diceva, i brani ora scelti dal nostro nel consueto omaggio alla tradizione americana più o meno recente, da una “Redemption Day” che è di Sheryl Crow ma che diventa subito un 100% Cash alla “For the Good Times” kristoffersoniana che guarda con serenità alla fine perché-non-è-tempo-di-abbandonarsi-alla-tristezza (“Don’t Look So Sad/I know It’s Over/ But Life Goes On/ And This Old World/ Will Keep On Turning”), fino alla ninnananna anti-bellica di “Last Night I Had The Strangest Dream”, interpretazione talmente toccante nella sua fragilità che si ha quasi l’impressione di ascoltare il baritono di Johnny negli ultimi sofferti istanti di sempre. Su tutto però una straordinaria determinazione, una Fede incrollabile, una commovente ostinazione nel voler concludere con fierezza e dignità quella “long and dusty road” che non volge affatto all’oscurità né alla tenebra ma che invece lascia intravedere la luce abbagliante di un nuovo percorso, quello “shining path” che è preludio alla gloriosa risurrezione di un corpo che nessun sepolcro potrà mai costringere in eterno. Aloha, non a caso, è il saluto scelto per il commiato e dunque non un triste e patetico addio quanto un ironico amorevole arrivederci, un malinconico ma sereno congedo che vuol essere estremo messaggio di speranza e financo di gioia, quasi un abbandono placido e sornione sotto il sole hawaiano piuttosto che un doloroso e definitivo distacco dall’esistenza terrena.

Until We Meet Again.

Prendete e ascoltatene tutti.

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