THEM CROOKED VULTURES, Them Crooked Vultures (Sony, 2009)

Se c’è qualcosa che questa decade di nostalgie ci ha chiarito al di là di ogni ragionevole dubbio è che il Rrrock – così come lo si intendeva negli anni ’70: ruggente, gagliardo, grandioso – è ormai morto e sepolto e tutto quel che possiamo ancora farci è mettersi a danzare sulla sua tomba. Anche questo, però, richiede una certa abilità, e dei ballerini che sappiano bilanciare uno spirito scavezzacollo con la dovuta “reverenza” verso i tempi che furono. Ecco perché, gettati al dimenticatoio la maggior parte dei tentativi compiuti per mani troppo giovani e inesperte, conviene rivolgersi a dei navigati, a quelli che al Rock ha già dato più di quanto potranno mai prendersi.
E’ il caso delle tre teste di serie che spuntano dal corpo dei Them Crooked Vultures, predatore purosangue nell’ampio bestiario del rock revival, che dai dizionari settantini ha rispolverato in un sol colpo le definizioni di ‘Supergruppo’ e ‘Power-trio’. Quegli Sporchi Avvoltoi – come si fanno chiamare, consapevoli della loro vocazione ‘necrofaga’ – marciano sul rinnovato Asse di Alleanza Usa-Uk, al comando di John Paul Jones, lo Zeppelin più defilato, e con Josh Homme e Dave Grohl per luogotenenti: due grandi reduci dei nineties già in coppia nel 2002 per la stesura di quel fior di testamento rock che era “Songs for the Deaf” (e “..for the dead”), annoverato in questi giorni da molte playlist del decennio.

Rispetto ad allora la qualità del songwriting di Homme è parecchio calata, si sentiva nelle ultime prove delle sue Regine e si sente anche qua. Anche dietro una veste sonora più svettante, si soffre decisamente la mancanza di una “No one knows” di turno, con un chorus azzeccato e il riffone granitico che ti si stampa in testa. D’altro canto l’esordio dei Vultures è un disco più suonato che non scritto, e trova la sua prima ragion d’essere, più che nei brani in sé, nelle trame strumentali e nel modo in cui vengono intrecciate dal trio. Con qualche eccezione più “ponderata” (il midtempo di “Bandoliers”, per dirne una) quasi tutti i pezzi in scaletta sembrerebbero cavati fuori a suon di scalpello da lunghissime jam sessions di chitarra basso batteria, queste sì in pieno stile ‘70. Non fosse per una tendenza, spesso incontrollata, alla sovraincisione, si potrebbe quasi dire che gli effetti non differiscano poi molto da quelli di un’eventuale registrazione in presa analogica. Un’impressione che non fa che aumentare il fascino retrò del disco, con tanto di gustose derapate psichedeliche nell’ultima parte della tracklist, là dove Jones riprende a fare ciò che meglio gli riesce: il produttore. E’ lui a cucire e a tenere insieme assieme i brandelli di quest’ennesimo Frankestein del rock’n’roll, che al momento cammina e si muove in maniera decisamente più convincente di molti altri suoi omologhi: varrà la pena di attenderlo al primo appuntamento live, per constatare se il “mostro” è davvero tornato a vivere…

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