THE FLAMING LIPS, Embryonic (Warner Bros., 2009)

Nel decennio dei revival anche la psichedelia sta avendo i suoi momenti di gloria. Col rischio di dimenticare che vecchie glorie quali i Flaming Lips ci siano arrivate giusto un paio di decenni prima senza mai abbandonare la tortuosa strada maestra. Dall’EP d’esordio passando per il disco-chiave “In A Priest Driven Ambulance” fino alla progressiva virata “mainstream” – attributo da prendere cautela, ma pop in fondo lo sono sempre stati nei colori più che nei toni – degli ultimi lavori, in cui la forma canzone ha provato a prendere faticosamente piede. Ma i Flaming Lips sono i Flaming Lips. Non avranno scritto quel best-seller che altri contemporanei meno importanti sono riusciti a scrivere, ma la continuità nella loro resa e nella loro ricerca è fuori discussione. Più che dei meri revivalist nostalgici dei tempi che furono, sarebbe più onesto definirli i veri continuatori di quella scena anni ’60 che con la mediazione del kraut ha ispirato migliaia di band di ogni sorta o sfociando, in altri casi, in territori più ostici di avanguardia e musica sperimentale. In questi lunghi settanta minuti divisi virtualmente in due cd, il cappellaio magico Wayne Coyne e i suoi soci sembrano ripercorrere in un’ineffabile flusso di flashback sputati fuori come lampi, suggestioni e perversioni da jam psichedelica.

Senza mai sfociare nel modernismo, in “Embryonic” coesistono, in un equilibrio coerente e stabile nella sua isteria da urgenza espressiva Sixties, elementi figli del 2000 e spunti della vecchia scuola, difficilmente distinguibili e analizzabili singolamente. Basta l’introduttiva “Convinced Of The Hex”, figlia bastarda dei Can e più precisamente del loro classico “Mushrooms” per capire la portata di questa imponente psychopedia lisergica tra accademia e dadaismo musicale. Suoni sporchi e ruvidi, rumori di fondo, chitarre gracchianti, arrangiamenti acidi e tridimensionali. Anche nei momenti dalle ritmiche più nervose, quali “The Sparrow Looks Up At The Machine” o “See The Leaves” con la sua parentesi lunare tra kraut e primi Pink Floyd, più esplicitamente richiamati nei messaggi dalla Via Lattea di “Gemini Syringes” (lanciati dal matematico Thorsten Wörmann) quanto nell’angosciante ballad “Evil”, riscaldata in maniera effimera dai suoi inserti orchestrali prevale sempre un’atmosfera tragica e cupa in questo caleidoscopico concept spaziale. Persino in un momento più rassicurante e fiabesca quale la barrettiana “If” emerge un vuoto esistenziale che fa gelare il sangue. Un continuo rincorrersi di epilettici incubi da mescalina dipinti da chitarre urlanti (la strumentale “Aquarius Sabotage” che ha il suo doppelganger zodiacale barocco nella seconda parte dell’album, “Scorpio Sword”) e sconvolgenti altalene emotive, come l’instabilita à la Frank Zappa di “Your Bats” che sotterrata da un minimalismo orchestrale si trasfigura nella dark-ballad che i Velvet Underground avrebbero scritto dopo l’Undici Settembre, l’annichilente buio di “Powerless”.

Difficile rintracciare elementi sostanzialmente diversi nell’ideale seconda parte che è aperta da un brano parzialmente riconducibile agli ultimi Flaming Lips per le armonizzazioni vocali sognanti e stralunate da 1966-67 che annegano e poi riemergono in quei crescendo alla loro maniera. La differenza sta nel rifiuto della forma-canzone. Anche nel momento per così dire più leggero, “I Can Be A Frog” con tanto di cameo telefonico di Karen O degli Yeah Yeah Yeahs che in condizioni mentali auspicabilmente indecorose si presta a una sorta di vecchiafattoria da Factory riproducendo versi di svariati animali in una ballad che con un altro testo, e senza le risate di Karen, assumerebbe un’aria straziante. Seguendo il filone-Karen, di tutt’altro tenore la travolgente traccia conclusiva “Watching The Planets”, un nevrastenico noise, dalla cadenza tribale e distorto oltremodo guidato da linee vocali tipiche del collettivo dell’Oklahoma. Seguendo il filone zodiacale, invece, anche nella seconda parte i rimandi floydiani pur rivisti in chiave contemporanea negli squilibrati equilibri sonori sospesi tra analogico e digitale, non mancano. Da “Sagittarius Silver Announcement” a “Virgo Self-Esteem Broadcast”, una sorta di estratto di “Animals” mixato da Brian Wilson direttamente da un satellite. In “Silver Trembling Hands” che oscilla incredibilmente tra anni ’70, Suicide e Animal Collective e “Worm Mountain” danno lezioni a tanti nomi attuali col paradosso che uno di questi, gli MGMT, vi collabori nella seconda, piuttosto fruttuosamente scongiurando ogni timore del definitivo sputtanamento senile in chiave pop. I groove sono spietati e disorientano l’ascolto quanto la consueta pioggia di suoni sovrapposti tra compositi inserti digital-orchestrali.

Era dal coraggioso esperimento di “Zaireeka” dei quattro dischi da ascoltare simultaneamente da quattro impianti diversi che i Flaming Lips non si spingevano così oltre. Raggiungendo questa volta un risultato che supera le aspettative, nel costruire la sintesi definitiva tra il loro sound e decenni di psichedelia, concentrati in un concept di cui si sentiva così tanto il bisogno, un’opera omnia il cui valore verrà forse compreso a pieno tra qualche decennio. Come del resto per i grandi capolavori sotterranei della scena a cavallo tra i maledetti ’60 e ’70. Sempre che il temuto 2012 non si riveli davvero così devastante e in tal caso ci sarebbe comunque “Embryonic”. Come ideale colonna sonora di un’apocalisse a basso profilo. Arida e ineffabile.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *