SONIC YOUTH, The Eternal (Matador, 2009)

Chissà che il segreto per invecchiare così dignitosamente non sia nel nome. Un patto col diavolo, un elisir di lunga giovinezza sonica, e non solo sonica visto l’impatto dei loro live e la scelta di tenere aggiornati fan sul processo creativo dietro al nuovo album via-Twitter. Più semplicemente tanta umiltà e la voglia di ridiscutersi, nonostante si sia già dato abbastanza alla musica contemporanea. Quindici album alle spalle, senza considerevoli cali qualitativi, da veri indipendenti. Anche discograficamente. Passati, dopo la parentesi nella Geffen, sotto Matador (Yo La Tengo, Mogwai, Cat Power, Belle & Sebastian), etichetta che muoveva i suoi primi passi a New York nel 1989 dove i quattro erano già delle autentiche icone underground per aver dato alle stampe cinque album (“Confusion Is Sex”, “Bad Moon Rising”, “Evol”, “Sister”, “Daydream Nation”) che avevano cambiato volto agli anni Ottanta. Inutile sperare di rivivere quei fasti. Vent’anni dopo avrebbe poco senso, né ci sarebbero buone chance.
Il processo di levigatura e ammorbidimento del suono non è iniziato ieri, ma da “Washing Machine” fino all’ultimo “Rather Ripped” che ha avuto il merito di dare una svolta power-pop a un sound che sembrava averli portati in un vicolo cieco negli album degli anni 2000. In un’incerta strada fatta di fedeltà ai furori del passato e la voglia di rendersi più freschi e melodici in sonorità nuove e ricercate.

Prosegue sulla stessa scia del precedente lavoro, questo sedicesimo LP, dal titolo che crea forse troppe aspettative, rispetto alla semplicità della sua proposta musicale, “The Eternal”. Entrato ormai a pieni ranghi nella band il bassista dei Pavement, Mark Ibold, Kim Gordon imbraccia la chitarra nei brani in cui non c’è un doppio-basso a rispondere all’affiatato duo chitarristico dei noise-hero Lee Ranaldo e Thurston Moore. I due minuti iniziali di “Sacred Trickster” e gli altri due minuti e poco più di “Thunderclap For Bobby Pyn” sono il manifesto del revisionismo sonico. Solite ritmiche incalzanti tagliate da giri di chitarra perfettamente incastonati ma decisamente contenuti nella loro esplosività. Il restano lo fanno le irrequiete voci di Kim e Thurston. Immediatezza melodica, voci sempre più prevalenti, anche quando cantano in due o addirittura in tre. “Leaky Lifeboat” dedicata a uno dei guru della beat generation (for Gregory Corso) e “Poison Arrow” sembrano delle revisioni post-punk di Lou Reed. Spunta fuori addirittura qualche accordo standard, le chitarre sono spesse, quasi hard-rock in determinati frangenti. Come se i Dinosaur Jr. rivisitassero i Blue Oyster Cult. Con le dovute prese di distanze. Perché “What We Know” e “No Way” riesce comunque a suonare sonica per l’inconfondibile voce metropolitana di Ranaldo e un paio di svisate di Thurston a cavalcare verso il nulla. La stessa “Calming The Snake”, nonostante i suoni siano più tradizionalmente rock, ha dalla sua la disperata voce della Gordon e feedback narcotizzati a fatica sullo sfondo.

Dai minuti si intuisce come ci sia poco spazio per loro digressioni rumorose, che pure non mancano. Come se l’epocale tour di tributo a “Daydream Nation” li avesse riportati con la mente nei garage della New York reaganiana. “Anti-Orgasm” è il brano che meglio sintetizza questa nuova coesistenza di elementi classici del rock più duro, passaggi quasi rock-blues e chitarroni, ed elementi tradizionalmente-Sonic Youth. Le due chitarre si intrecciano in quella maniera così peculiare da estasi rumorista rivisitata ai tempi del web. Nei momenti più carichi quanto nel velluto sonico di una “Antenna” che sembra scritta, e cantata, da Neil Young più che da Moore. “Malibu Gas Station” e soprattutto “Walkin Blue” nelle loro sonorità si accostano paradossalmente alle band-simbolo della scena indipendente americana degli anni ’90 che hanno percorso le strade spianate dai Sonic Youth qualche anno prima. Ci sono gli Yo La Tengo come i Pavement, non solo per i giri di basso di Ibold. Sempre sporcate in qualche modo dai loro inconfondibili intermezzi che pur autoreferenziali e ormai prevedibili riescono comunque a scorrere a meraviglia. E se poi, affianco a brani senz’altro efficaci ma poco innovativi e originali, torna la sperimentazione compositiva, neanche dispiace. Nei dolenti nove minuti conclusivi di “Massage The History”, lunga sessione semi-acustica sussurrata dalla Gordon scossa da una tempesta sonica che si ricompone subito imponendosi un silenzio forzato. Adesso funziona così.

E’ pur vero che se dei perfetti sconosciuti venissero fuori con album del genere, sarebbero tutti pronti a incensarli per l’abilità nel rievocare determinati spettri del passato con vivacità e gusto attuale. Ma sono i Sonic Youth e quindi si pretende sempre qualcosa di più. Quando invece, proprio alla luce del tipo di percorso intrapreso dai quattro newyorkesi nella loro coerente epopea, non si dovrebbe chiedere che questo. Onesta e dignità.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *