ROBERT OWENS, Night-Time Stories (Compost, 2008)

Due entità da sempre inscindibili, due concetti del tutto complementari: la figura mitologica di Robert Owens quale naturale emanazione dell’house tutta, miracolosa condensazione delle sue essenze più pure e cristalline, soffio primigenio che spira verso il futuro animando il percorso di quella cosa tanto spirituale quanto carnale che vede la luce nella Chicago di metà ’80 quale definitiva e irreversibile mutazione del corpo dance. Un po’ come per la vecchia storia dell’uovo e della gallina, quindi, è praticamente inutile qualsiasi perentorio tentativo chiarificatore trattandosi in questo caso di creature simultaneamente generate dalla stessa scintilla, destinate a seguire sentieri paralleli e a condividere in eterno la medesima lunghezza d’onda e la medesima visione.

La prodigiosa voce di Owens e le sue canzoni sono in primis gloriosamente legate a pionieri del genere che rispondono al nome di Larry Heard e Frankie Knuckles (con i quali darà vita a classici eterni come “Can You Feel It” o “I’ll Be Your Friend”), ma infinita è la lista di produttori che lavoreranno con lui – anche Photek fra le ultime collaborazioni – nel corso di una carriera che, muovendo dall’asse portante Chicago – New York, lo traghetterà di là dall’ oceano fino a Londra dove il Nostro attualmente risiede e dove oggi elabora questo Night-Time Stories che è l’ultimo meraviglioso lascito d’inestimabile valore consegnato all’umanità.

Novello Virgilio dantesco, il profeta dell’Ohio confessa umilmente i suoi limiti di Guida ma sa ben cogliere i segni di uno smarrimento spirituale, riuscendo così ad allertare i propri discepoli e a ricondurre la sua Musica sulla retta via della virtuosità nel momento in cui l’antica natura pare ormai corrompersi nel peccato e nella perdita progressiva dei connotati originari. E’ un lungo viaggio di redenzione attraverso Inferno e Purgatorio, quello che Owens compie insieme a noi, quasi a voler purificare la sua anima inquieta per poter al fine salvare la nostra.

La formazione con cui si presenta dopo un’assenza decennale è a dir poco stellare e la dice lunga su quale sia il prestigio e l’influenza acquisiti nel tempo dall’opera owensiana: un plotone di produttori di chiara matrice europea che annovera fra le sue fila gente del calibro di Ian Pooley e Kirk Degiorgio, Marc Romboy e Charles Webster – solo per citarne alcuni.

“Robert Owens…? Who is he?” Così recita l’intro iniziale in un confuso intreccio di voci, quasi a immaginare le ipotetiche perplessità di un mondo che – per assurdo – si fosse dimenticato di lui dopo tanti anni di silenzio. “Never heard ever” è infatti l’autoironica risposta, ma nessuno mai azzarderebbe tanto. E saranno forse chiacchiere sprecate, le nostre, perché bastano pochi minuti per capire che siamo di fronte a un capolavoro. A partire dall’invito avvolgente di “Inside My World” formato-Jimpster che apre letteralmente le porte dell’universo Owens dispensando la purezza di quell’aria incontaminata che là da sempre si respira, per proseguire con la toccante produzione Simbad di “New World”, primo picco emotivo dell’album in delicata fluttuazione dentro un mood idilliaco e terribilmente straniante. La voce angelica si schiude già in tutte le sue black sfumature e la magia si ripete ancora con Ian Pooley in cabina di regia quando la funky house di “I’m Chained” aggredisce linee di basso più pompate spezzando catene fin troppo fragili perché costringano uno spirito libero (“Let me go, let me move on”), oppure quando la maestosità in upbeat vira nella compattezza house di una “Only Me” targata Kid Massive, estatica seduzione baciata in coda da fatali saliscendi tastieristici. La classe di uno come Atjazz è al servizio di “Now I Know”, elegante gioiellino soul in downtempo; l’intensità diventa ossessione nella straordinaria “Never Give Up” con Webster, lasciata implodere malinconicamente nello struggente refrain “Be strong, Be proud”, drammatica e dolorosa come la successiva “Press On” – l’unico pezzo che vede Owens ai comandi – 10 minuti di pienezza e appagamento essenziali per capire chi è stato quest’uomo e quale forza si nasconda dentro la sua musica. Inutile cercare un vertice assoluto in un disco che origina da una fusione stilistica fatta di house r&b gospel influenze disco e morbide curvature soul, straordinariamente fresco e centrato anche nei numeri dove riemerge più netto il taglio old school, vedi “Merging” o l’oscura e sensuale “Back to You” con Romboy. “What goes around comes around” negli slanci misericordiosi di un eroe tormentato e positivo, il suo messaggio di fratellanza vivo anche negli spoken word a intervallare i brani (“Happiness is the only thing that really matters”), Night-Time Stories che sono racconti intesi per alleviare dolori e sofferenze, un regalo prezioso donatoci da un amico e da custodire gelosamente fra le cose più care.

Come il Sommo Poeta dinanzi all’armonia e alla luce divina, tentiamo di esprimere con parole un’esperienza indicibile nello sforzo di dare una forma verbale a sentimenti umanamente inesprimibili.
Ci sorprendiamo a pensare a cosa sarebbe se il domani non ci fosse, la felicità nello sguardo speranzoso ora rivolto al cielo notturno dell’altro emisfero.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.

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