BUGO, Contatti (Universal, 2008)

A voler essere banali diremmo subito che Bugo è cresciuto. E nell’ipotesi riusciremmo ad essere anche inesatti visto che il nostro, con buona pace di tutti, di crescere sembra proprio non averne voglia né tantomeno bisogno.

Abbandonato quel trono forse un po’ troppo scricchiolante dov’era appollaiato un paio d’anni fa, il Bugo spicca un balzo à la Pete Townshend, via la corona e via lo scettro. Slanci e abbandoni, spinte emotive e intimi ripiegamenti: tutto in uno, le foto del booklet come due facce della stessa medaglia. Stavolta il suo sguardo contemporaneo si avvale delle elettro-lenti di Stefano Fontana in cabina di regia e sembra tutto più a fuoco, tutto più nitido. Anche noi pensiamo di averci visto chiaro quando affermiamo che “Contatti” è davvero un bel disco, vitale e coeso. Sì perché lasciate alle spalle le schegge surreali de “La Prima Gratta” e le intuizioni folkeggianti/folleggianti di “Sentimento Westernato”, il nuovo lavoro del kid di Trecate Novarese sorpassa a sinistra il claudicante “Dal Lo Fai al Ci Sei” operando una sintesi ben più convincente di quella proposta con il – seppur valido – doppio “Golia & Melchiorre” (dove troviamo – non mi stancherò mai di ripeterlo – quel piccolo capolavoro assoluto che è “Che Diritti Ho su di Te?”).

“Posso Entrare?” è un contagioso na-na-na-nana-na-na-na di zucchero filato e bigbabol, un ritornello di quelli da far cantare ai bambini mentre tornano da scuola mano nella mano, l’impronta stylophonica che fa subito capolino ad indicare una rotta che si preannuncia decisamente (e piacevolmente) dancey. “C’è Crisi”, con la sua melodia perfetta e quel micidiale giro di piano, è a dir poco irresistibile e la mettiamo dritta-dritta fra i momenti più riusciti dell’intera produzione bugattiana: un pezzo pop come ormai se ne sentono pochi, semplice e puro, assolutamente disarmante. E, accidenti, ancora mi ronza nella testa. Ma lui no. Lui non conosce né crisi né emergenza e se ne frega altamente di tutto e di tutti, anche quando gli altri “sembrano sempre più felici di me” (l’alienato ballabile “Nel Giro Giusto”); anche quando, novello Tarzan stanco di lussi e agiatezze, predica un ritorno alla clava dell’essenziale (“voglio tornare all’età della pietra/essere il quinto del quartetto cetra”, ironizza l’elettro-funk di “Primitivo”) oppure si muove disilluso nella precaria collaborazione con Aldo Nove (“Balliamo un Altro Mese”).

La produzione molto groove-oriented, come detto, è un valore aggiunto che veste a pennello sopra le guizzanti forme dei vari brani e l’anti-rap de “Le Buone Maniere” arriva ad avvalersi di un’apertura ipnotica che sa di techno, mentre “Love Boat” è giusto un altro luminoso punto esclamativo (lo era stato recentemente “Millennia”) che qua plana battistiano e malinconico in una deliziosa deep-disco che nella voce e nella pigra atmosfera ricorda maledettamente il Lucio di fine-settanta, quello ai ferri corti con Mogol. Capace di stregarci ancora una volta (ricordate “Amore Mio Infinito”?) con quel mood candidamente adolescenziale (“La Mano Mia” se ne vola via dietro bassi sincopati), Bugo chiude un cerchio bello tondo con una riflessione del tutto personale sulla “Felicità” e sull’amore (e sui luoghi comuni troppo spesso legati a certi concetti), congedandosi tenero come non mai attraverso parole e note di rara intensità, fragili quanto preziose (“Sesto Senso”).

Un consiglio spassionato: se ancora non l’avete fatto, aggiungetelo ai vostri contatti.
Perché quando ci accorgeremo che Bugo è il miglior cantautore in circolazione, sarà sempre troppo tardi.

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