HOT CHIP, Made In The Dark (Astralwerks / DFA, 2008)

Con “Over And Over” che ancora riecheggia in quei dancefloor rigorosamente alternativi, ed entrati ormai a pieni ranghi nel circuito di James Murphy e Tim Goldsworthy, tornano dopo neanche due anni con un nuovo album in studio. Dalle premesse a dir poco accattivanti, non solo perché sono uno dei nomi nuovi effettivamente più interessanti della scena britannica. Basti la semplice idea di una versione dark dell’irresistibile cocktail di electro-dance e synth-pop multicolor di evidente derivazione eighties, dopo l’imprimatur della DFA nelle convincenti deviazioni disco-funk della svolta di “The Warning”, ottimo seguito di “Coming On Strong”, l’eccellente esordio fatto di gemme pop dalle venature elettroniche e rilassati sottofondi estivi.

Dai un’occhiata alla copertina, però, e qualche dubbio ti viene, conoscendo l’irrinunciabile autoironia di Joe Goddard e soci. Né il singhiozzante synth che apre la scena in “Out At The Pictures” smentisce il presagio. Frenetica fuga synth-pop da New Order del nuovo millennio per l’idealtipo dell’apertura da dj-set che scorre via sbattendo tra una variazione e l’altra sospinta da beat e il timbro scazzato di Goddard. Cui segue la poderosa “Shake A Fist” con il suo incedere quasi house con tanto di intermezzo elegantemente cafonesco da revivalist piacioni di nuova generazione alla Calvin Harris. Inizio folgorante che di dark ha meno che nulla se non la ruvida algidità di synth che sembrano la revisione techno-house delle intuizioni di due decenni fa dei primi Depeche Mode e dei vari John Foxx, Human League, Soft Cell e Gary Numan. Revisione secondo i dettami e le esigenze nostalgiche e allo stesso modo futuribili del pop più elettronico e danzereccio dei nostri giorni. Un po’ come per i Postal Service e i Junior Boys… dei quali a tratti ricordano la cifra stilistica, non c’è quell’aria di furba rievocazione fine a se stessa comune a molti altri contemporanei.

Ovviamente non può e non deve mancare il potenziale tormentone, la scanzonata filastrocca dance di “Ready For The Floor”, che un po’ come “Boy From School”, sa catturare dopo mezzo ascolto. Non è un album questo terzo lavoro degli Hot Chip. “Made In The Dark” ha tutta l’aria di un party. Alla faccia del dark e dell’oscurità, su ritmi comunque meno sostenuti che in “The Warning”. Dagli stralunati rigurgiti robotici passando per le fascionazioni funky del Beck à la Prince di “Midnite Vultures”, modellate su puzzle di campionature, tastiere, bassi schiaccanti e beat astutissimi, l’album funziona, ma a tratti non brilla certamente per freschezza e originalità (“Bendable Posable” e “Don’t Dance”). Meglio quando si finisce risucchiati in stroboscopici inni da dancefloor (rigorosamente alternativi, ma non solo) arrangiati alla perfezione con le voci di Goddard e Taylor che si intrecciano magistralmente nelle peculiari linee vocali trasognate che poco si confarebbero a quell’aspetto da inguaribili nerd.

Si pensi a “Touch Too Much” e “One Pure Thought”, ideali sottofondi dei momenti in cui ci si può anche defilare ai bordi della pista per riflettere sulla situazione aiutati da un drink. Tutto ciò avrà pure i connotati di un party indie londinese che più londinese (o più indie…) non si può, ma non c’è party che si rispetti senza il momento lentoni da fine serata. Così da fasi in cui danno l’idea degli LCD Soundsystem che remixano i Tears For Fears, i cinque – forse nel tentativo di rivivere i fasti dei soffusi scorci da lounge-bar di “Coming On Strong” – si addentrano bruscamente in agrodolci ballad da bagnasciuga. Un paio anche efficaci (“We’re Looking For A Lot Of Love” e “Whistle For Will”), un altro paio meno riuscito, “In The Privacy Of Our Love” e la tiletrack, coraggiose soste a metà strada tra soul e gli episodi più stucchevoli in cui potevano inciampare Paul Weller e Brian Ferry. Se ne può fare a meno. Meglio uscire o approfittare per una pausa rest-room e rientrare spinti dalla calca quando gli Hot Chip accelerano e i ritmi diventano più sostenuti negli ipnotici tessuti di effetti, basi, synth e chitarre che si rincorrono nella vorticosa nevrosi di “Hold On”.
Gli Hot Chip in fondo sono questo.
Per il dark e l’oscurità ci sarà altra occasione.
Un altro drink e tutti a casa con un sorriso ebete sulle labbra.

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