HERBERT, Scale (!K7 / Audioglobe, 2006)

Non capita quasi mai, ma ci sono dischi in cui il genio di chi li ha composti trabocca da ogni parte. E, cosa ancora più rara, ci sono album in cui le idee, per quanto geniali, non soffocano la musica, ma la accompagnano per rendere le canzoni davvero speciali. In “Scale” succede tutto questo: è un album politicizzato ma orecchiabile in maniera sublime; concettuale (probabilmente servirebbe un piccolo saggio per ognuno degli undici brani, per capire da dove arrivano tutti quei meravigliosi suoni) eppure godibilissimo; debitore tanto dell’avanguardia della musica concreta quanto del più classico jazz da big band.

Herbert non arriva alla complessità formale di “Plat du jour”, ma la miriade di suoni con cui ha costruito queste canzoni è comunque impressionante: i messaggi lasciati in una segreteria telefonica, una batteria suonata sott’acqua o in una macchina lanciata a folle velocità, meteoriti, bare, lamiere… verrebbe quasi voglia di suonare questo disco secondo per secondo, per godere perfettamente degli eccezionali incastri timbrici e ritmici. Oppure, l’altra soluzione è quella di lasciar scorrere “Scale” senza preoccuparsi di etica sonora, concettualità e motivazioni politiche; quello che si incontra è un album di jazz sontuoso, con un suono talmente ricco da lasciare sbalorditi, con la voce morbida di Dani Siciliano adagiata di volta in volta su tappeti diversi: splendidi archi e disco anni ’70 (“Moving like a train”), atmosfere da musical (“We’re in love”, dove quasi ci si aspetta di veder spuntare Mary Poppins), ballate psichedeliche frastornanti (“Down”) e ritmiche incredibilmente complesse (“Just once”, o la strepitosa “The movers and the shakers”).

Ma l’album scorre anche a un livello più profondo, quello dei testi, che rischiano di passare in secondo piano di fronte a una tale ricchezza di suoni: attacchi frontali all’imperialismo occidentale, condanne senza appello a un mondo schiavo del petrolio e condannato ad autodistruggersi. “Non succede nulla di essenziale in assenza di rumore”, scrive Jacques Attali, e Matthew Herbert traduce questa frase in realtà: in “Scale” il suono racconta storie, intrattiene, polemizza, seduce. Chi altro riesce a creare musica talmente complessa da risultare, paradossalmente, semplice?

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