JULIE’S HAIRCUT, After Dark, My Sweet (Homesleep / Audioglobe, 2006)

Chiunque abbia ascoltato “After dark, my sweet”, il quarto album dei Julie’s Haircut, usa soprattutto una parola per definirlo: “coraggioso”. Spariscono i ritornelli a presa rapida sotto colate di improvvisazioni spacey, le voci scompaiono sotto vortici strumentali, le strutture pop vengono totalmente ignorate; ci vuole coraggio per abbandonare tutto quello che una band sa fare molto bene, ma l’evoluzione dei Julie’s forse non è così inattesa. Ad ascoltare bene, già le canzoni che chiudevano “Adult situations” – il loro album più polimorfo – tendevano ad una psichedelia liquida e ad una forma più libera, quasi ad omaggiare gli Spaceman 3: non è un caso, allora, che a manipolare gli strumenti in “After dark, my sweet” compaia proprio Pete “Sonic Boom” Kember.

L’ascolto di “After dark, my sweet” spiazza comunque, soprattutto in virtù di un poker fulminante di canzoni poste in apertura: se “Open wound” è secca, cruda e rapida (tra le chitarre maltrattate e battimani), “Sister pneumonia” è una sinusoide di quiete e rumore, tra feedback che tagliano l’aria, corde sibilanti e il Farfisa a regalare umori alieni; mentre “Afterdark” procede nervosa ed è assolutamente straordinaria nella picchiata elettrica che la sconvolge, “Satan eats seitan” è una spirale di tastiere aggrovigliate come un filo di lana su un ferro da calza.

Basterebbero queste quattro canzoni a fare di “After dark, my sweet” un album assolutamente irrinunciabile, ma la partenza è talmente spedita da far sembrare il resto di un livello inferiore; gli altri brani portano alla luce passioni che il sestetto aveva finora solo nascosto tra le righe (quella per il cinema, o quella per il kraut-rock), rinuncia quasi totalmente alle parole e vive di improvvisazioni. Spesso i brani sgorgano da un canovaccio creato al momento, o dalla stessa base ritmica nascono due pezzi totalmente diversi (“Liv Ullman” e “Ingrid Thulin” hanno la stessa linea di basso, ma è la seconda a raggiungere una grande ricchezza timbrica, dilatandosi fino a ricordare i Pink Floyd); deliri senza direzione (i Suicide sotto formalina di “Purple jewel”) si appaiano ad una ballata straniata e surreale come “Pistils”. Non tutto appare perfettamente a fuoco, ma con questo disco i Julie’s rinunciano definitivamente a farsi catalogare, e trovano il piacere di suonare nel non sapere dove si andrà a finire: se si è disposti a seguire il loro viaggio, allora “After dark, my sweet” diventerà in breve un album al quale affezionarsi moltissimo.

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