CESARE BASILE, Hellequin Song (Mescal / Sony, 2006)

Hellequin è un demone. Vaga per i campi di battaglia alla ricerca dei cadaveri più valorosi, per farli combattere con sé per l’eternità. Predestinazione, sconfitta, amore, morte, violenza: c’è tutto questo nella vita, e anche nelle canzoni di Cesare Basile che, passo dopo passo, si avvicina sempre più alla propria visione del blues. Ancora meno accessibile del precedente “Gran calavera elettrica” – che si reggeva sulle densità di splendide chitarre – “Hellequin song” asciuga ulteriormente i suoni, li rende essenziali e in equilibrio perfetto: le canzoni si appoggiano spesso al pianoforte, scelgono toni intimi, mai gridati, ma la tensione è evidente e tutto è sempre sul punto di scoppiare.

Un Hammond sale piano tra le spazzole, il contrabbasso e il banjo: è “Dal cranio” a dare il via al disco, fondendo amore, religione e violenza in maniera inestricabile (“Inchiodato all’amore / crocefisso di spalle…” sono le prime parole che ascoltiamo); un pianoforte dal suono quasi classico detta il passo, sul tempo dispari della magnifica “Finito questo”, mentre il romanticismo disperato di un Nick Cave deflagra tra i fuzz Bauhaus del singolo “Fratello gentile”; tre voci si intrecciano nel blues cisposo di “Odd man blues”; un valzer pianistico si fa strada tra parole assurde e una batteria scudisciata (“Il deserto”); l’elettrica scalcia come un puledro impaziente, le dissonanze vengono trattenute dai riverberi.

E poi, improvvisamente, tutto si fa dolce: “To speak of love” è una meraviglia in cui pianoforte e violoncello dialogano lontani, il contrabbasso si flette per farli toccare su parole bellissime (“There’s a beauty case to keep the stolen words, they speak of love”). È forse il punto più alto del disco, dove ogni cosa è perfetta, ed emerge il lavoro fantastico di John Parish ai suoni: la canzone è solo in apparenza nuda, ma in realtà è piena di suoni, e ogni dettaglio è essenziale e perfetto.

“Hellequin song” è un disco di dettagli magnifici: l’attacco jazzato del pianoforte di Michela Manfroi e del contrabbasso di Giorgia Poli (l’eredità degli Scisma non è andata persa) in “Continuous lover, silent sister”, o la malinconia della fisarmonica di “Usa tutto l’amore che porto” (quasi una canzone di Leo Ferrè rifatta dai Têtes de Bois); o ancora gli strumenti che cercano la melodia e la fanno crescere fino alla distorsione finale in “Ceaseless and fierce” (tra gli Scisma e il Mark Lanegan di “I’ll take care of you”), fino alla serenità di “Stella and the Burning heart”… sono questi momenti indimenticabili a fare di “Hellequin song” un disco prezioso che parla il linguaggio del blues, personale e universale.

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