Intervista a Stephen Malkmus

Di M & R e Daniele Paletta

Stephen Malkmus (foto di Moses Berkson © 2000)

Confesso un po’ di emozione. Sì, perché trovare all’altro capo del telefono un’icona vivente dell’indie rock degli ultimi quindici anni non è cosa da tutti i giorni. Lo hanno sempre dipinto come un gentiluomo, pacato e sottilmente ironico: ed è proprio così che lo trovo anche io, nonostante il furto subito sul tour bus poche ore prima (a proposito: i furti sui furgoni dei musicisti stanno diventando un po’ troppo ricorrenti…) e a poco meno di un’ora dal concerto sul palco del Circolo degli Artisti di Roma per una delle ultime tappe del tour di supporto a “Face the Truth”.


So che avete subito un furto sul tour bus, oggi. Siete riusciti a salvare gli strumenti?

Sì, abbiamo gli strumenti, ma ci hanno rubato tutti i soldi: eravamo alla fine del tour, quindi ce n’erano un po’…speriamo di riuscire a recuperarli, ma non so quante speranze abbiamo. Così vanno le cose, purtroppo… e di conseguenza non sono troppo di buonumore, stasera…

(a questo punto l’intervistatore era pronto a fingere un guasto nella linea telefonica o qualche altra catastrofe per evitare le ire dell’eroe-di-culto-scazzato-davanti-all’ennesimo-giornalista ma, pian piano, il discorso viene dirottato sulla musica, e l’intervista prosegue)


“Face the truth”: in che modo un titolo così diretto si adatta alle canzoni del disco?

Non saprei: è stato solo il modo in cui ho affrontato le cose. L’ho registrato a casa, on poche persone attorno e…beh, ho affrontato tutto in modo molto diretto: affrontare la verità è spesso difficile, ma necessario.

Stephen Malkmus & The Jicks (foto di John Clark © 2003)

Ascoltando il disco, il suono è sembrato molto più aspro rispetto alle tue prove da solista precedenti. Questo è perché hai fatto tutto da solo? Che ruolo hanno avuto stavolta i Jicks?

Sì, sono d’accordo con te sul suono: è venuto così, più urgente degli altri. Stavolta i Jicks hanno fatto solo da backing band, e il batterista mi ha aiutato a registrare su nastro le canzoni. Per il resto ho fatto tutto da solo, e credo che “Face the truth” sia un disco molto più personale.


Una canzone come “No more shoes” suona molto psichedelica, con anche qualche accenno prog. Pensi che sia cambiato il tuo modo di suonare la chitarra in tutti questi anni?

Sì, non è sbagliato sentire del prog nella parte centrale di chitarre, e sì, credo davvero che il mio modo di suonare sia cambiato negli anni, e molto dipende, secondo me, dall’aver ampliato gli ascolti.
Prima gran parte di quello che ascoltavo erano cose come Velvet Underground e Sonic Youth, ma ora ascolto molta più musica, più raffinata, con strutture più complesse…ultimamente mi piacciono molto alcuni suoni heavy blues.


In “Post-paint boy” canti “The world has become so American”: hai scritto quelle parole solo riferendoti a un punto di vista artistico o anche politico?

Senza dubbio non è solo una questione artistica: il mondo è diventato più americano, tutto il mondo. Guarda alla Russia: là ora sono come negli Stati Uniti negli anni ’30, dove tutto ciò che conta è avere soldi. E questo è ironico, no? Se pensi che finora non avevano ancora conosciuto il capitalismo…
Comunque tutto questo per me è orribile, sono disgustato dagli USA per moltissimi motivi; ovvio che ci siano anche cose buone, ma…
Ad esempio, io credo ancora nella democrazia, ma non penso assolutamente che ogni cosa diversa da me, o che venga da fuori, sia orribile e vada eliminata. Chi ha stabilito che il nostro modo di fare è quello giusto?

Tu hai sempre pubblicato i tuoi dischi su etichette indipendenti. Trovi che la situazione di questo periodo sia cambiata rispetto a quando tu hai iniziato a suonare?

Non così tanto: c’è sempre gente che tenta di fare soldi grazie alla musica, e di propagandare una cultura giovanile per far vedere che chi la segue è diverso dagli altri. Semmai ora ci sonommolte più band, molte più etichette e venues dove suonare rispetto al 1992, quando ho iniziato io. Allo stesso tempo alcune realtà come Matador e Sub Pop sono diventate molto grandi, e tutto questo è un riflesso di quanto accadde dieci anni fa; se ci pensi, era accaduto lo stesso in Inghilterra all’inizio degli anni ’80 dopo il punk…


Siete fortunati: da noi non esiste un movimento così grande…

Beh, voi avete tradizioni diverse: non tanto nel punk, quanto piuttosto nel prog, venite da un passato sinfonico. Ma questo non vuol dire che la scena non sia in grado di produrre nulla di interessante.


A proposito di questo, qualche hanno fa un’etichetta indie italiana, la Homesleep, ha pubblicato un tributo ai Pavement. Ne eri a conoscenza, lo hai ascoltato?

Sì, ho avuto occasione di ascoltare quel disco, e mi è piaciuto molto, trovo che al progetto abbiano partecipato ottime band.


Sempre a proposito dei Pavement: ad ogni intervista ti fanno domande sulla tua vecchia band, il pubblico ai concerti ti chiede le vecchie canzoni…dev’essere difficile confrontarti sempre col tuo passato artistico…

Non è sempre facile, ma è qualcosa di cui sono felice e orgoglioso. I Pavement sono stati la mia vita!


Un’ultima domanda: so che hai partecipato al nuovo disco dei Silver Jews. Qual è stato il tuo contributo a “Tanglewood numbers”? So che tu e David Berman siete amici da anni, da quando lavoravate assieme allo stesso museo d’arte…

Non ho fatto niente di speciale: ho solamente suonato la chitarra in due canzoni, e niente più. Sì, io e David siamo amici da moltissimo tempo e… beh, all’inizio io lavoravo al museo, mentre lui stava sul divano di casa a farsi delle canne e a scrivere poesie; col tempo lui ha iniziato a mettere a fuoco il suo talento, e ora è diventato davvero bravo, e molto più attivo di un tempo…


Quindi ora è il tuo turno di stare sul divano a farti delle canne e a scrivere poesie…

(ride) No, non credo, ma non sarebbe una cattiva idea!