FANTOMAS, Suspended Animation (Ipecac / Goodfellas, 2005)

Facciamo un gioco.
Sareste in grado, su due piedi, di raccontare cosa avete fatto durante l’aprile di questo anno? Intendo dire entrando nel dettaglio della quotidianità; insomma, un resoconto che inizi con il più classico dei pesci d’aprile e si concluda solo alle porte della festa dei lavoratori.
Perché è proprio ciò che i Fantomas hanno portato a termine in “Suspended Animation”, trenta istantanee atte a rappresentare (nel senso più ampio che può acquistare questo termine, simbolo, identificazione e rappresentanza coatta di un’ideologia, o meglio ancora di un’indole) un mese di vita e musica.

I musicofili che, come chi scrive, conoscono e ammirano il percorso autoriale di Mike Patton, non si stupiranno di venire a sapere che quest’ultima creatura partorita dal geniaccio di statunitensi natali e nostrana adozione – per quanto la natura apolide di Patton neghi di fatto non solo l’urgenza di un sentirsi acquistati o concupiti ma l’utilizzo stesso del verbo adottare – è dominata da una passione smodata per l’ibridismo e l’improvvisazione. Non si stupiranno perché questa tendenza, pur così adatta a divenire concetto qui rispetto a episodi del passato, appare la normale evoluzione di quanto già accennato in “Delirium corda” e soprattutto nello splendido pastiche “The Director’s Cut” che racchiudeva nella sua geniale titolazione il riferimento cinematografico – con vari omaggi a Nino Rota, Henry Mancini e compagnia – e quello meramente legato all’attitudine musicale.

Una serie progressiva di Stop & Go, di toccate e fughe, che deflagra totalmente nelle miriadi di micro riferimenti presenti in “Suspended Animation”; il quale, come egregiamente sottolineato dalla veste grafica ideata da Yoshitomo Nara, è un puro e cristallino esempio di avant-pop. Perché capace di condensare in pochi secondi musica “alta”, ennesimi rimandi a Rota (e a Morricone), frammenti di videogames, estasi ecclesiastiche, riottose convulsioni metal, rumorismi e tintinnii cartoonistici, svolazzi sintetizzati di memorie sci-fi infantili, preludi à la Lynch (e dunque à la Badalamenti), addirittura gorgheggi operistici.

Lo stato di empatia raggiunto da Buzz Osborne, Dave Lombardo e Trevor Dunn – suoi abituali compagni di ventura – con l’universo futurista (e come dimenticare il mai particolarmente citato “Pranzo oltranzista” desunto da Martinetti?) e più zorniano di Zorn stesso edificato mattone dopo mattone da Patton è sublime e invidiabile. Tutto sta a capire dove il progressivo annientamento dello standard (quanto sono musicalmente lontani ed eticamente vicini i tempi dei Faith No More e della loro cover di “Easy” di Lionel Ritchie!) condurrà il leader della band. Rimane tutto, come l’animazione, in sospeso.

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