JOSH ROUSE, Nashville (Edel, 2005)

Ci sono certe persone che riescono a scrivere la canzone pop perfetta con una naturalezza irritante. Sì perché non bisogna essere fondamentalmente dei geni per fare dei piccoli capolavori: mica è sempre detto che ci debbano essere arrangiamenti elaborati e sovrastrutture che scardinano le teorie di Adorno, di Middleton e di ogni studioso di popolar music.

Certo, questa non è un j’accuse nei confronti della sperimentazione musicale, soltanto un’ode alla sincera semplicità delle canzoni di Josh Rouse, che partendo da un bagaglio melodico che pesca nella migliore scuola dell’America leggera e del soul (i soliti: Carole King, Suzanne Vega, James Taylor… ma anche Neil Young e Otis Reeding) e spiattella senza problemi pezzi talmente catchy ed elementari che sorprendono. Potremmo anche star qui a parlare all’infinito del valore della canzone disimpegnata in un’epoca non semplice come la nostra, ma quando attacca la melodia di “Winter in the Hamptons” si rimane stregati senza alternativa. E allora va tutto a farsi benedire e si ascoltano a ripetizione le armonie semplicemente fantastiche di “Nashville”.

Che poi Josh Rouse ci aveva già abituato bene con il precedente “1972” e chi – come il sottoscritto – non sa resistere ad una manciata di melliflue canzonette buone solo per il ballo a fine anno, troverà in questo disco più di una conferma. Oltre alla già citata “Winter in the Hamptons”, c’è la malinconica “Sad eyes”, la festa danzante di “Carolina” e l’incedere sviolinante di “Streetlights”… ma parlarne è inutile, fondamentalmente perché questa è musica da assaporare per quello che è, lasciandosi alle spalle tutto (da una pesante giornata di lavoro a una pioggia estiva) e ondeggiare la testa fischiettando, finalmente, felici.

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