FRANCESCO DE GREGORI, Pezzi (Columbia, 2005)

Francesco De Gregori è oramai l’ombra di un fantasma che cammina, per usare le sue stesse parole nella storica “Marianna al bivio”, datata 1973. Allora il cantautore romano era appena agli esordi e si cimentava in metriche surreali e invettive scomposte, menestrello contemporaneo alla ricerca della propria posizione. Ora, nel 2005, a trentadue anni da quella frase così perfettamente evocativa, la musica che ci viene proposta è un rock gentile, indolente e tendente alla litania, alla moda del Dylan post-’76. La voce è sempre in procinto di risultare monocorde, narrante, mentre la musica fluisce via, vecchia e completamente standardizzata.

A quattro anni dal contorto e irrisolto “Amore nel pomeriggio”, noioso ed eccessivamente autoindulgente, capace di appena un paio di fiammate – “Il cuoco di Salò”, in parte, così come in parte viene voglia di salvare dal disastro una dimessa cantata sconfitta come “L’aggettivo mitico” – e per il resto dimostrazione dell’incapacità di rinnovarsi e di mostrarsi adeguato ai tempi. Difficoltà a connettersi con la contemporaneità che prorompe ulteriormente in “Pezzi”; basterebbe la mediocrità senza speranza di revisionismo di un brano come “Tempo reale”, rock che avrebbe fatto gridare allo stantio anche Jerry Lee Lewis e Chuck Berry, per rendersi conto di come l’urlo sinistro (sinistrato? sinistroide? sinistrorso?) contro i mali del nostro tempo – condivisibili, per carità, non ci deve essere fraintendimento su questo – risulti a conti fatti poco più che un guaito. Come si fa infatti a intendere, in un contesto simile, la parola musicale scissa da quella scritta e declamata?

E, partendo da questo presupposto, come si fa a non considerare negativamente un lavoro come “Pezzi”? Certo, c’è un brano come “Parole a memoria” che fa tornare alla mente il miglior De Gregori, magari incapace di raggiungere i picchi che lo rendono uno dei giganti della musica cantautoriale italiana (non ai livelli di Battiato e De André, probabilmente, ma sicuramente sopra a un Francesco Guccini, tanto per fare un nome a cui quello di De Gregori viene accostato per associazione di idee) ma comunque valida, ben costruita, con un testo non più indispensabile come al tempo che fu ma sempre acuto e la musica che gioca a occhi aperti con la ballata dylaniana – quei minuscoli accenni all’incedere e agli accordi di “Knockin’ On Heaven’s Door”, ad esempio -. C’è “Parole a memoria”, si diceva, ma basta da sola a sorreggere e a dare motivazioni a un lavoro francamente trascurabile?

No, sicuramente no: purtroppo il rock di De Gregori è materia morta, non ha nulla del nostro adesso ma non riesce a porsi come memoria del passato, sfida vinta in coppia con Giovanna Marini nel sottovalutato “Il fischio del vapore”. Eppure quando si respira aria demodé (come in “Le lacrime di Nemo – l’esplosione – la fine”) si capisce che, se solo sapesse staccarsi da questo approccio musicale – che tra l’altro ha partorito solo gli album della fase discendente dell’autore, dal pessimo “Miramare” al sufficiente “Canzoni d’amore” toccando il suo vertice nel comunque non esaltante “Prendere e lasciare” – De Gregori potrebbe ancora dire molto, o comunque potrebbe dirlo senza dover essere considerato inadatto. Perché, e credo che nessuno possa essere stupito da questo, “Il vestito del violinista” sarà sempre più sdrucito e meno elegante dell’”Abbigliamento di un fuochista”.

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