THE MARS VOLTA, Frances The Mute (Universal, 2005)

Un passaggio de “La banda dei brocchi” di Jonathan Coe descrive una sessione di prove musicali di un giovane gruppo di liceali britannici nel 1977 alle prese con una complessa partitura prog. Dopo quindici minuti di ghirigori strumentali il batterista manda tutti affanculo e comincia a pestare un 4/4 che da il via ad una jam punk. Il tastierista/cantante/compositore di quel gruppo mai esistito se ne va abbattuto con i suoi spartiti, i suoi sogni tolkeniani e le sue ossessioni grandgugnolesche. E noi che leggiamo ci uniamo in un coro di esultanza. Il progressive rock è morto.

Se trent’anni fa l’antidoto alle sbrodolate progressive era il punk, oggi siamo nella più totale incertezza: il punk è diventato una caricatura di sé stesso e alcuni tra i migliori alfieri del movimento (i Mclusky, per dirne uno) ci hanno abbandonato mentre altri – gli At the Drive-In – si sono riciclati in gruppi emo dimenticabili (Sparta) e spaventosi leviatani sonori che ti inoltrano in un incubo fatto di tecnicismo, concettualismo, cerebralismo e tutto gli ismi che portano ad un grido di terrore. I Mars Volta.

Eravamo decisi a dar loro una possibilità dopo aver digerito con qualche difficoltà il precedente “De-Loused in the Comatorium”, ma qui crolla ogni alibi e non c’è scusa che tenga: concept album su una persona che vuole trovare i suoi genitori. Una storia che si dice sia stata – tra l’altro – trovata su un diario abbandonato in un auto. Potrebbe essere esilarante se non fosse che la musica con la quale Cedric Zavala e Omar Rodriguez hanno deciso di musicare questo loro “Frances the Mute” lascia parecchio sconcertati… l’iperbole dell’esagerazione qui perde totalmente la bussola partendo quindi per la tangente e lanciandosi in arditi esperimenti che toccano qualsiasi cosa in cinque canzoni allargate (con tanto di sottotitoli e baggianate del genere) senza capo né coda. Una tronfia autocelebrazione che ricorda paurosamente l’harakiri degli Yes di “Tales from topographic oceans”. Soltanto che se ai tempi quel disco venne ripudiato addirittura dai pasdaran elfici, i Mars Volta riescono a creare un certo proselitismo – per dire, il loro recente concerto milanese è andato esaurito e sono quarti nella classifica di Billboard – che rende ancora più spaventosa e pericolosa l’opera.

Dall’incedere medieval-hard rock di “Cygnus, Vismund Cygnus “alla retorica raffazzonata di “Cassandra Geminni” ci troviamo davanti ad un contenitore ipotetico del nulla. Una truffa ben congeniata che mescola disordinatamente Paco de Lucia e i Marillion, Blackmore’s Night e Jethro Tull più ambiziosi e il tutto con un’estetica e un’ottica a metà tra la psichedelia e il punk. E visto che qui dentro c’è anche del punk dubito che possa nuovamente salvarci. Si prevedono tempi duri, ammesso che non arrivi un artista che vorrà davvero fare piazza pulita con un disco candido e personale, in cui risponde a tutta questa esagerazione con cinquanta, bellissimi, minuti di silenzio.

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