LEONARD COHEN, Dear Heather (Columbia, 2004)

Se Leonard Cohen si fosse trovato, per uno sghiribizzo improvviso dei varchi temporali, a nascere all’interno di una tribù di nativi americani con ogni probabilità sarebbe stato investito alla vita con il nome di Grande Anima. Su questo, dopo una carriera che si avvia a festeggiare i suoi primi quarant’anni, ci sono ben pochi dubbi. La sua voce racchiude al suo interno l’essenza stessa dei sentimenti umani e l’esplicazione dei segni incomprensibili che circondano la vita miserrima (o splendida, in alcuni casi gli ossimori diventano sinonimi) sulla terra.

Ed è la luce pacificante sprigionata dal suo romanticismo epico e trattenuto – e quanto ancora sarò costretto a tornare sull’ossimoro come elemento estremo dell’arte di Cohen? – ha regalare i momenti migliori in “Dear Heather”; lontano dalle tastiere fluttuanti e in aria di grandeur sommessa che avevano contraddistinto “Ten New Songs” tre anni fa, Cohen veste i panni del compositore e osserva, curioso, la sua creatura dall’esterno; dedica spazio ad altre voci, ad altri contesti, ad altri punti di vista. Sta fermo in un angolo ad ascoltare, estremo paradosso di un uomo che ha raggiunto alcune tra le più alte vette del cantautorato mondiale. L’interrogativo che deve averlo spinto in questa avventura è stato sicuramente “ma cosa diventerebbero le mie canzoni se a intonarle fosse qualcun altro? Che senso acquistano le parole di un uomo se a pronunciarle è un altro?” ed ammetto che è sicuramente uno degli spunti di interesse maggiori ricevuti da un musicista nell’ultimo periodo. Da un musicista, non propriamente dalla sua musica: perché come estrema e senza compromessi appare la scommessa di Cohen da un punto di vista teorico così la sua messa in musica non riesce a distaccarsi troppo dal puro esercizio stilistico.

Straordinario, per carità, ma non così ammaliante come ci si potrebbe aspettare. Rimane interessante l’uso della strumentazione, come il contrabbasso e lo xilofono che accompagnano “Morning Glory”, capace di passare da atmosfere da club notturno a vero e proprio coro polifonico. Ma stiamo parlando di una bella eccezione, paragonabile forse solo alla spiazzante title-track: per il resto tante belle melodie vellutate e cullanti, ma che non aggiungono in fondo tasselli insostituibili nella storia di un uomo che ha dato tanto alla storia della musica. Per quanto riguarda invece l’interrogativo di cui parlavo prima e la scommessa lanciata a se stesso dall’autore, devo ammettere di aver apprezzato il progetto, ma di essere stato rapito totalmente e scaraventato in uno spazio diverso solo in un occasione: nel lungo recitato, qui interpretato direttamente da Cohen, che caratterizza “Villanelle of Our Time”. Le altre voci qui restano puramente sullo sfondo, e la voce di Cohen pervade totalmente l’aria, costringendo al mutismo.

E allora spero che l’aver guardato se stesso dall’esterno e aver avuto l’occasione di ascoltare i suoi brani in bocca ad altri dia nuova spinta all’artista, e gli faccia riprendere in mano le direttive vocali della sua musica. E che “Dear Heater” rimanga quello che è: un esperimento che ha prodotto un album interessante, e non una pratica consolidata.

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