Intervista agli Animal Collective

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Gli Animal Collective, ovvero la musica fuori dal nostro tempo. Intervista via email con Avey Tare (nel collettivo insieme a Panda Bear, Geologist e Deaken), parecchio disinteressato a discutere di psichedelia ma assai più ben disposto a viverla. Per i quattro la musica è una “questione personale” e dovrebbe servire per celebrare una nascita, guarire malattie o piangere un amore perduto. Da “Here Comes The Indian” al recente “Sung Tongs” invece di “folk”, “psichedelia” e “kraut rock” meglio parlare semplicemente di “libertà”.

Ascoltandovi sembra di essere di fronte ad un assurdo collage postmoderno di folk, psichedelia, ritmi tribali e ipotesi kraut rock: vi riconoscete nella descrizione? In che modo riuscite a conciliare elementi musicali così divergenti?

Per me è strano considerare così separati questi elementi. A questo punto le cose per me sono confuse. Per noi questi elementi sono sempre stati parte dello stesso calderone, non so se mi spiego. Il Kraut Rock (anche se io non uso mai questo termine) è molto psichedelico e tribale. Non usiamo queste parole per la nostra musica o forse per noi non hanno proprio significato. Parlare di psichedelia non è così bello come viverla.

“Who Could Win a Rabbit”, così come molte altre vostre composizioni, ha in sé un germe primitivo che riporta ad atmosfere e timbri desueti, a tratti addirittura demodé: qual è il vostro rapporto con le radici del suono americano?

In realtà non mi rifaccio alle radici del suono americano. In effetti potrei dire che non mi piace il blues perché credo abbia creato parecchi tremendi musicisti rock. Per esempio Eric Clapton. Eric, cosa succede, lascia perdere. Non sei Robert Johnson e non lo sarai mai. Capisci? Semplicemente credo che portiamo le cose indietro in un tempo o in una civiltà in cui non c’erano media, immagini, tv e pubblicità. In cui le persone utilizzino la musica ad esempio per celebrare una nuova nascita, per guarire malattie o per piangere un amore perduto. Facciamo musica perché è vicina a noi come persone, credo che in generale ci sia una perdita di musica personale. Questa è l’unica ragione per cui la gente può chiamarci musicisti Folk, perché credo che stiamo cercando di far arrivare qualcosa al folk. In “Purple Rain” il gestore del club dice a Prince “The Kid” che il palco non è il luogo per le questioni personali… al contrario io credo che lo sia e lo stesso pensava the kid.

Rispetto a “Here Comes the Indian”, che considero uno dei migliori lavori dello scorso anno, “Sung Tongs” appare maggiormente riflessivo, meno improvvisato, più dolente: è così errato pensare alla vostra ultima fatica come a un canto di lavoro, mentre “Here Comes the Indian” era un volo pindarico alla ricerca della libertà estrema?

Credo che tutti i nostri dischi parlino di libertà. HCTI parlava di libertà ma più nel senso di lasciar liberi i demoni quando devono andare. E’ stato un periodo molto scuro e caotico e credo si veda. Geo ritiene sia il nostro disco tropicale ma io non sono d’accordo.
In “Sung Tongs” due cantautori si liberano dalla follia elettronica and riducono tutto a due voci e due chitarre. Non è molto più riflessivo dei nostri altri dischi, lasciamo semplicemente l’ascoltatore immergersi nella nostra riflessione un po’ di più rispetto al passato perché si possono ascoltare i testi. Non ci sono strumentali.

Quanto conta per voi l’improvvisazione?

E’ piuttosto importante ma lo è ancora di più per l’ispirazione. The Dead improvvisavano molto e io rispetto le band che sono in grado di uscire fuori con esibizioni così dolci improvvisando la metà delle cose. Ma questo non vuol dire che facciamo lo stesso. Noi improvvisiamo l’umore e il modo in cui eseguiamo le canzoni ma note, melodie e testi sono tutti scritti prima della nostra esibizione dal vivo.

Siete stati di volta in volta accomunati a musicisti dalle derivazioni musicali disparate, da Syd Barrett a Erick Satie, dagli Amon Duul ai Cromagnon. Io vi do l’occasione di descrivere da soli il vostro suono e di accomunarvi, se vi fa piacere, a musicisti del passato. Che nomi mi sparate?

In realtà questo genere di cose non mi interessa.

Dovendo definire in tre parole il termine “freak” (orribilmente abusato di questi tempi) quali termini usereste?

Diciamo che Geologist ha dato una sberla a mia sorella. Questa cosa sarebbe totalmente fuori dagli schemi e non da lui, così la mia reazione sarebbe qualcosa come “perché ti comporti da freak?” Non credo che la parola freak abbia nessun significato nel mondo di oggi. Sembra che tutti pensino di essere o non essere freak e la realtà è che tutti lo sono e non lo sono.

La vostra musica sembra posizionarsi a metà tra la materialità del folk e il cosmico dipanarsi della psichedelia, come accade anche in altri esempi di musica contemporanea statunitense: cosa ne pensate della cosiddetta “nuova scena folk”? Vi ci riconoscete?

Ci sentiamo vicini a chiunque si diverte e ascolta buona musica. E’ il pubblico che decide cosa è vicino a cosa perché loro decidono cosa amano ascoltare e cosa no. Credo che noi suoneremmo nel modo in cui suoniamo indipendentemente dalla scena in cui la gente ci inserisce.

Fino a che punto può arrivare un “collettivo di animali”? Cosa vedete nel vostro futuro?

Ci vedo suonare fino a che saremo felici di suonare insieme. Facciamo passi molto brevi e siamo arrivati fino a qui. Forse arriveremo ancora più lontano ma non sono neanche sicuro del significato di questa cosa.

Quali sono i dieci dischi che portereste su un’isola deserta?

Vashti Bunyan ­ Just another Diamond Day
Black Dice ­ Creature Comforts
Pavement ­ Westing
Qualcosa della Kompakt
African Brothers Dance Band International
SRC ­ SRC
Terry Riley ­ Decsending Moon Dervishes
Keith Hudson ­ Playing it Cool
Nirvana ­ Nevermind
Climax Golden Twins 3” CD

(Raffaele Meale)

19 luglio 2004