JETHRO TULL, Benefit (Chrisalis, 1970)

Il suono del gruppo si irrobustisce in questo lavoro a volte considerato un completamento di “Stand Up”, il suo naturale séguito condotto nel medesimo solco stilistico. In realtà, se è vero che non troviamo differenze sostanziali fra i due dischi, ne rileviamo però di secondarie, marginali, tali in ogni caso da rafforzare la nostra interpretazione complessiva della musica dei Jethro Tull.

E’ avvertibile innanzitutto, come detto, il progredire nella direzione di un suono più corposo e complesso che darà luogo dapprima, l’anno seguente, al celeberrimo “Aqualung”, il quale non costituisce il frutto di una improvvisa illuminazione che avrebbe colto Anderson sulla via di Damasco. Oltretutto fra “Benefit” e “Aqualung” non intercorre nemmeno un anno intero: un po’ poco per un mutamento così radicale quale quello spesso postulato dai critici.

Ma offriremo ora prove più circostanziate. Innanzitutto il settore vocale: noi sentiamo una maggiore espressività, una più forte carica interpretativa, maggiore potenza nella voce di Anderson. Ciò si accompagna alla citata amplificazione strumentale, forse non rilevabile al primo ascolto, ma indubbiamente presente. Non si registra ancora nessun mutamento d’organico, ma ecco che spunta fuori il nome di John Evans, membro del primissimo gruppo di Ian Anderson (dove suonava la chitarra), prima del ’67: qui in “Benefit” risulta solo collaboratore esterno (tant’è che non figura in copertina) e viene ringraziato nelle note interne: suoi pianoforte e organo. Dal punto di vista strumentale comunque non c’è nulla di nuovo. Semplicemente in “Stand Up” era Anderson ad occuparsi anche del settore tastieristico. Ma una delle nostre prove consiste proprio nella volontà del cantante di affidare ad altri quel settore: con “Aqualung” infatti, Evans entrerà a pieno titolo nei Jethro Tull, creando una specializzazione strumentale che prima non c’era, utilizzando anche sintetizzatori e, ma solo in “Aqualung”, anche mellotron. In altre parole si avrà una formazione a cinque.

“With You There To Help Me”, pezzo d’apertura, mostra sùbito una maggiore ariosità rispetto alla pari ruolo dell’album precedente. Rafforza ulteriormente questa impressione la successiva “Nothing To Say”, incisiva ballata che tocca toni maestosi nel canto, mai fino ad ora così aperto, di Anderson, e nella combinazione di chitarre e pianoforte nell’accompagnamento. Sempre il piano, oltre al ‘solito’ flauto, è presente in “Alive And Well And Living In”, di carattere e ritmo più ridenti. Con la vigorosa “Son” emergono chiari accenti psichedelici, confermati incredibilmente dall’intermezzo in stile talmente beatlesiano da sembrare una parodia, un riferimento voluto. Parte in sordina per poi rinvigorirsi “For Michael Collins, Jeffrey And Me”, dalla struttura forse più tradizionale. E poi la trascinante “To Cry You A Song”, dalla ritmica esaltante, in cui le due linee di chitarra elettrica (una prevalentemente in funzione ritmica), il basso e la batteria creano un suono vigoroso e semplice al tempo stesso, con un portentoso riff di Martin Barre, un vero ‘imprevisto’ da antologia del rock. Bella anche la parte vocale, scandita potentemente e lasciata spesso sola, con improvvise interruzioni dell’accompagnamento, così da farla risaltare.

Un impasto riuscitissimo di blues e progressive. E un impasto spesso è più buono delle semplici materie prime. Efficaci impasti sono pure “A Time For Everything?”, la famosa e delicata “Inside”, e la conclusiva “Sossity; You’re A Woman”, una impeccabile ballata semi-acustica di folk-prog; progressiva specialmente nel medievaleggiante accompagnamento della doppia chitarra acustica, sostenuto da un tenue organo, più ‘folkeggiante’ nella sezione vocale. L’aggressiva “Play in Time” è invece più decisamente folk-blues, e dominata dal folleggiante flauto di Anderson.

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