TON DEAN / MARK HEWINS, Bar Torque (Moon June Records, 2001)

Per i cultori della scuola di Canterbury il nome di Elton Dean è indissolubilmente legato al trittico “Third”/”Fourth”/”Fifth” dei Soft Machine, datato 1970-’72: ottimo esempio di musica senza appartenenza, veleggiante lungo i confini fra i generi allo scopo di provocare in essi qualche cedimento da cui trarre linfa vitale. Per la verità il risultato, grazie anche al sax di Dean, fu allora sostanzialmente un free jazz totale assistito dal nume tutelare del Miles Davis elettrico: di difficile digestione (almeno per i neofiti del genere) quanto, ad esempio, “Free Jazz” di Ornette Coleman. Ma passeggiando in questi territori di nessuno, in questa zona franca, si comprende molto dei rapporti che legano i cosidetti generi musicali e si impara a ridere di coloro che vorrebbero piantare paletti dappertutto. Rise in cuor suo (almeno così ci piace pensare) il già citato Coleman verificando le prime reazioni alla sua suite “Skies of America”: musica classica contemporanea!.

Allo stesso modo sembrano ridersela i nostri due veterani, alla prese con un percorso minimalista ed essenziale, intimista ma insieme intenso e quasi rituale. Jazz d’atmosfera confacente al luogo dove fu eseguito dal vivo nel 1992: il London Jazz Café. Centellinando una bevanda (siamo in uno di quei luoghi che hanno sempre ispirato i jazzisti!) si assiste ad un rito musicale misterioso, dove i campionatori e le chitarre di Mark Hewins sostengono il discorso mistico pronunciato dai sassofoni cari a Elton Dean: contralto e saxello (una variante del soprano), gli stessi dei lontani tempi canterburiani. Un rito di purificazione che non mira a fortificarci, bensì a pacificare l’animo. Nell’elettronica paiono sublimarsi i disordinati e casuali suoni del mondo materiale: talvolta nulla più che un sottofondo uniforme, talaltra più nettamente emergenti, come nel cinguettio d’uccelli di “Merilyn’s Cave”, mentre noi ci rilassiamo in un ambiente ovattato, privo di forti contrasti, appena attraversato dai fraseggi – sereni o dolorosi come la multiforme realtà – del sax, che non interrompe quasi mai la sua arcana litania e, come un flauto magico, riduce all’ordine e addomestica il caos.

A questo punto, compenetrati dalla musica ipnotica, potremmo anche cedere al piacevole torpore che ci assale, senza accorgerci di essere nel frattempo giunti al termine della cerimonia.
I tre lunghi brani sono firmati da ambedue i musicisti. Ottima la cura dei nastri, rimixati e rimasterizzati da Mark Hewins.

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