BEN CRISTOPHERS, Spoonface (V2 Records, 2001)

Secondo album per il cantautore di Wolverhampton, dopo l’incensato esordio di “My beautiful demon”, datato 1999. Alla produzione troviamo sempre David Kosten, grande appassionato di musica classica e di avanguardie, il quale sembra avere un ruolo sempre più importante negli arrangiamenti dei pezzi di Christophers.

“Spoonface” pare accentuare quell’aspetto techno-folk intravisto nell’illustre predecessore, scarnificando la trama musicale a soli tre elementi basilari: chitarra acustica (o piano, qualche volta), discreti interventi computerizzati e la voce di Ben, esile, tesa, vellutata, spesso ai confini del falsetto, comunque molto particolare e tecnica. Troviamo anche momenti più ritmati, come nella traccia d’apertura, nell’allegra (!) “Transatlantic shooting stars” (dovutamente remixata diverrebbe una specie di dancefloors’ hit…), nell’ipnotica ed un po’ scontata “Hooded kiss”, ed infine in “Losing myself”. Tutte canzoni di una certa dignità, vero, ma che non appaiono scaturire dalla vera anima dell’autore, molto più sé stesso quando cala il ritmo ed i tempi si diradano.

Di “Spoonface” impressiona il suo ipnotismo e la sua aridità gelida, una steppa dei sentimenti che sicuramente cela da qualche parte un lato passionale a forma di dacia col camino acceso. Purtroppo si fa fatica perfino ad intravedere il fumo del comignolo, tanta è la distanza che l’autore mette – coscientemente? – tra lui e l’ascoltatore. In “Falls into view”, per esempio, si aggira il fantasmino di Mark Hollis dei Talk Talk, quello col vestito primaverile di “The colour of spring”; dopo due minuti ha già preso il raffreddore, visto il progressivo calo della temperatura comunicativa. “Songbird scrapes the sky” è una cella frigorifera che si compone di un’algidità modello Japan (fase “Tin drum”, ma senza il genio palese di Sylvian) che si cristallizza in una straziante, disperata bossanova surgelata.

Intendiamoci, alcune tracce sono molto belle ed affascinanti: la scarna ed onirica “Easter park”, la destrutturata e free title track (lieve e leggera nel suo grigiore compatto), ed infine “The opium willows”, la regina dell’album, sempre scarna ma finalmente emozionante e diretta, una piccola magia che ricorda delicatezze alla Tim Buckley.
Ed ora proviamo a ripartire con “Leaving my sorrow behind”. Christophers è un artista da comprendere e per farlo siamo disposti ad ascoltarlo col cappotto…

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