PAUL WELLER, Days Of Speed (Independiente Records, 2001)

Più che un unplugged, “Days Of Speed” è un emozionante tete à tete tra Paul Weller ed il suo pubblico, corso numerosissimo in tutti i clubs ed i piccoli teatri dove il grande artista si è esibito durante la scorsa primavera/estate. La scelta di affrontare un one man band show è stata decisamente felice, tanto da fare assemblare in un tempo piuttosto ristretto questo live che riproduce fedelmente le atmosfere scarne e piene di pathos create dal magico binomio tra la voce roca di Paul e le sue chitarre, elettriche o più spesso acustiche.
Dalle sue esibizioni durante il lungo peregrinare europeo, l’ex leader di Jam e Style Council ha estratto alcune perle che colpiranno molto sia chi ha avuto il privilegio di assistere ad uno dei suoi spettacoli, sia chi dovesse avvicinarsi per la prima volta a questo purosangue del pop inglese, sempre talmente cool da meritarsi il titolo di King of Mods da almeno due decadi.

Già, il caro vecchio “Wella” batte, per usare un termine ippico, la maggioranza della concorrenza di qualche incollatura, ed il motivo risiede principalmente nella bellezza delle canzoni da lui composte, canzoni che hanno toccato generi e stili sovente diversi, sempre proposte con ardore ed inarrivabile eleganza. Ecco, credo che il grande segreto di Weller stia proprio in questa irruenza controllata o, al contrario, in una mai completa linearità di sentimenti che percepiamo anche in episodi apparentemente sereni e felici come “Headstart For Happiness”, uno dei capolavori dell’epoca filo-jazz marca Style Council.

La successione dei 18 brani di “Days Of Speed” consiste in una quasi fedele presentazione della scaletta di ogni singolo act del tour e, in generale, in una strepitosa antologia acustica della carriera del musicista inglese. Così ci spostiamo dal mitico Bush (non George junior…) di Londra alla Civic Hall della provinciale Wolverhampton, dall’illustre Academy di Manchester al nostrano e meritevole club di Rimini, il Velvet. In ognuna di queste sedi il pubblico ha potuto ascoltare gemme senza tempo come “Above the Clouds”, “English Rose”, la Whoiana “Clues”, l’agreste “Wild Wood”, tutte ballate che sono già nel gotha della grande musica britannica. Inoltre, grazie alla notevole tecnica strumentistica, Weller ha realizzato fiammanti versioni di pezzi originariamente parecchio ritmati, come la tesa “There’s No Drinking After You’re Dead” e la funkeggiante, splendida “Science”, per poi cercarsi l’ovazione (ed intravedere la commozione) proponendo trascinanti versioni di “That’s Entertainment” e “Town Called Malice”, indimenticabili hits della luminosa parabola Jam. Proprio “Town Called Malice” chiude l’album, nella versione registrata al Velvet di Rimini, piccola soddisfazione per noi cisalpini abituati da sempre a vivere di “musica riflessa”.

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