LED ZEPPELIN, Led Zeppelin III (Atlantic, 1970)

Tour estenuanti, centinaia di migliaia di fans impazziti, decibel a profusione. Dopo l’uscita di “II”, i Led Zeppelin cominciarono ad assaporare il successo, quello vero, e a conquistare il mondo a suon di rock and roll. Ma non solo di rock and roll erano fatti i Led Zeppelin; le due menti creative del gruppo, Jimmy Page e Robert Plant, cominciarono ad avvicinarsi a nuove forme di espressione, a generi apparentemente lontani dal “dirigibile”. Il 1970 è l’anno della “scoperta acustica”; il gruppo si ritirò per un breve periodo in uno sperduto cottage presso Bron-Y-Aur, isolato villaggio del Galles. L’atmosfera bucolica e rilassata in cui il gruppo si immerse, fece affiorare sconosciute passioni per il folk, il country, il rock californiano.

Da questa esperienza nasce “III”, l’album forse più controverso, ma anche più ricco di sfumature nascoste. In questo disco si respira la solarità di Joni Mitchell, la pacatezza di Crosby Stills Nash & Young, e soprattutto quel languido desiderio per una terra promessa che non c’era, ma che allora veniva identificata con la California. Gli Zeppelin incrociano le tematiche hyppie piuttosto tardi rispetto alla storia, e infatti in alcuni episodi del disco l’incontro si rivela piuttosto impacciato.

Ma tutto questo lo si capisce dopo. L’album apre con “Immigrant Song”, tipica canzone “pesante” alla Led Zeppelin. La chitarra assomiglia a quel “martello degli dei” di cui parla Plant nel testo di questa canzone, e la voce è un urlo selvaggio a caccia di prigionieri. Il testo del brano è piuttosto grottesco: parla di orde barbariche che si apprestano a conquistare le Terre del Nord al grido di “Valalla sto arrivando!”. Certo oggi si può sorridere di fronte a tanta ingenuità, ma all’epoca, soprattutto grazie all’effetto novità, ciò poteva avere un suo grossolano fascino, fascino confermato dal fatto che in seguito schiere di band heavy metal si sono ampiamente ispirate a questo tipo di tematiche.

Subito dopo questa sferzata di energia belluina, arriva il primo assaggio acustico del disco con “Friends”, brano che comunque, forse grazie al suo particolare arrangiamento di archi, mantiene un’atmosfera di tensione e drammaticità. Qui la chitarra acustica di Page, preparata con una delle sue “accordature impossibili”, fa da tappeto al testo di Plant che parla a suo modo di amore e fratellanza.
Ma i capolavori devono ancora arrivare. Tutto l’amore degli Zeppelin per il blues, la tradizione afro-americana, il sudore e le lacrime del Mississipi, trova la sua “summa” in “Since I’ve Been Loving You”. Questa canzone è un tipico blues in minore, lento e strascicato, amato e sofferto. Qui Page e Plant raggiungono vette interpretative eccelse: Plant parte da fraseggi pacati e sussurrati per arrivare ad urla disperate. Page dal canto suo duetta con Plant per tutto il brano, chiosando in un botta e risposta le dolenti note del biondo cantante, per poi esplodere in uno dei più belli assolo della storia del rock. Una chitarra compressa all’inverosimile, sporca, imprecisa, eppure così “umana”, una creatura con una vita propria. Canzoni come questa spazzano letteralmente via il suono e l’indole “giacca e cravatta” di chitarristi come Clapton, imponendo i Led Zeppelin come i veri interpreti dell’anima blues che pulsa nel rock.

Il lato B di “III” esprime al meglio l’anima folk di questo disco. L’atmosfera si fa rarefatta, le batterie si dileguano per fare posto a delicate chitarre acustiche, mandolini e altre simili amenità. Non tutti i brani hanno comunque pari dignità. Uno dei più riusciti è certamente “Gallows Pole”, canzone “traditional” che, per il suo incedere così “country”, invita a danze sfrenate al suono di un incalzante banjo. Le acque si calmano con “Tangerine”, delicata “ballad” dal sapore californiano. Altra canzone simbolo della svolta acustica dei Led Zeppelin è “That’s The Way”, brano in cui Page sfodera ancora un’accordatura inedita per accompagnare il testo dal sapore ecologista di Plant.

L’atmosfera è quanto di più bucolico si possa pensare, lontana anni luce dalle detonate da palco a cui gli Zeppelin avevano abituato il proprio pubblico. E infatti il disco viene accolto in maniera piuttosto tiepida, nonostante fosse già disco d’oro con le sole prenotazioni. Soprattutto la critica si scaglia contro il gruppo, accusato di un eccessivo e poco ispirato eclettismo. Eppure questo disco sembra fatto apposta per innamorarsi di ognuna delle canzoni che lo compongono, per portarsele con sé nella propria vita e farne uno scrigno segreto in cui custodire le proprie esperienze, i propri amori, le proprie speranze.

Ad ogni modo, da qui parte la rottura tra la band e la stampa, ma soprattutto l’idea di una totale autonomia da tutto ciò che la critica, il pubblico si aspetta. Le sorprese non tarderanno ad arrivare. La “scala per il paradiso” è vicina.

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