ELLIOTT SMITH, Figure 8 (UNI/Dreamworks, 2000)

Elliott Smith ritorna sulla strada. Dopo Will Hunting, dopo “XO” e dopo la notte degli Oscar, dopo i titoli di coda di American Beauty che scorrevano col sottofondo della sua cover di “Because” dei Beatles. Lui, che è forse il più grande autore di canzoni della sua generazione, riparte da loro, i Beatles, per costruire canzoni che appaiono veri e propri classici della musica rock.

I Beatles, tuttavia, sono soltanto un punto di partenza, perchè, come accade per Elvis Costello, Elliott Smith costruisce canzoni inconfondibilmente sue. Meno elaborato e più diretto del predecessore “XO”, a cominciare dall’incedere sostenuto di “Son of Sam” per arrivare a “Stupidity Tries” e “Happiness”, dove il fantasma del gruppo di Liverpool è dietro l’angolo, il disco alterna velocità e lentezza, rabbia e dolcezza. Si incontrano situazioni differenti, come il piano western di “Lost and Found”, uno dei pezzi meno riusciti del disco, la splendida rarefazione di “Colour Bars”, il crescendo di “Cant Make a Sound”.

Dove Elliott Smith riesce a colpire in profondità è nei brani più raccolti, in canzoni fragili come “Somebody I Used to Know”,”The easy way out” e “Everything reminds me of her”, nel piano desolato di “Everything means nothing to me”, quando mette a nudo se stesso, le proprie canzoni e i propri sogni. E’ qui la magia delle sue canzoni, come quando canta “Ho ancora tanta strada da percorrere” in “Better be quiet now” e si ha la netta impressione di vederlo su una strada, diretto verso un altro posto.

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