[#tbt] L’inaspettata reunion dei Menomena

Un paio di settimane fa i pochi (o i tanti, chissà) che ancora leggono Pitchfork, nostalgici di quella che un tempo era a tutti gli effetti “La Bibbia” dell’alternative rock, prima di diventare, più o meno in contemporanea alla sua acquisizione da parte del colosso editoriale Conde Nast, non si sa bene cosa, sono incappati in un’intervista interessante. Nello specifico i Menomena, dopo una pausa di circa 12 anni, hanno annunciato una reunion della formazione originale per uno show dal vivo a Portland, la loro città natale. L’annuncio, giunto insieme alla ristampa di tutti i loro album, sarà forse passato inosservato ai più, ma per chi si è formato musicalmente a cavallo tra gli anni ’00 e i primi anni ’10 questo nome inconsueto e cacofonico non può lasciare indifferenti.

Facciamo un salto indietro. È l’autunno del 2000 (il duemila!) quando il polistrumentista Brent Knopf torna a Portland dopo aver concluso il suo percorso di studi al Dartmouth College nel New Hampshire, e si ritrova ad un concerto dei Lackthereof, la band di un suo vecchio amico, l’altissimo batterista Denny Seim, che suona insieme al cantante, bassista e saxofonista Justin Harris. Negli anni lontani dalla sua città Brent ha pensato e ripensato alla sua idea di musica, basata sull’improvvisazione, la fusione di generi e l’intreccio di micro-sinfonie. Ha anche messo a frutto le sue doti di programmatore per sviluppare un software che lui stesso ha battezzato Deeler. In un’intervista uscita alcuni anni dopo Justin Harris lo descrisse in questo modo: “Brent stava cercando di creare uno strumento che potesse aiutarlo dal vivo per le sue esibizioni da solista. In pratica, si tratta di un programma che ha dieci tracce di registrazione che interagiscono con qualsiasi altro software tu stia usando per registrare. Queste dieci tracce contengono ciascuna cinque file in cui memorizzare suoni, tempo, lunghezza etc. Se si fa partire una traccia, questa registra automaticamente e in solitaria basandosi sul down beat di qualsiasi cosa venga successivamente suonata; l’effetto è quello di una canzone che va in loop spontaneo e continuo. Il risultato finale è un insieme di parti che in qualche modo si adattano l’una con l’altra” Insomma, parliamo di quello che oggi sembrerebbe un normalissimo software di campionamento a disposizione in qualsiasi studio di registrazione dignitoso. Ma allora no, allora era diverso.

Le idee di Knopf piacciono moltissimo agli altri due musicisti ed il trio, dopo essersi ribattezzato Menomena, nome bizzarro sull’origine del quale la stessa band ha fatto circolare diverse teorie, iniziano a suonare insieme per gli States ed a registrare le prime demo, rigorosamente autoprodotte. Come per tutte le band di talento, non passa molto tempo prima che una label si accorga di loro, anche se il loro prima disco, uscito ufficialmente nel 2003 per Basurk, circolava già da tempo nella scena indie della East Coast. “I Am The Fun Blame Monster” è un manifesto e racchiude la summa di tutti gli elementi che in seguito avrebbero reso i Menomena una band di culto. Ancora oggi descrivere questi elementi è un lavoro ingrato, ma proviamoci lo stesso.
Le canzoni della band di Portland nascono in un luogo, tra un battito incessante di batteria e una linea ipnotica di pianoforte, e si inerpicano senza preavviso su territori diversi, quasi opposti; un riff tagliente di chitarra, un’interruzione morbida o violenta del sassofono, un cambio di ritmo del basso ed ecco che i brani si disintegrano e rinascono in una forma nuova nello spazio di pochi minuti. Altre volte la musica procede per addizione, in un crescendo di strumenti, e il risultato sono cavalcate adrenaliniche che lasciano senza fiato. In tutto questo, i tratti barocchi della musica dei Menomena non deragliano mai, ma restano liberi di sfogarsi in una confezione melodica sempre orecchiabile, sinuosa, quasi pop, se vogliamo osare. A rendere tutto ancora più memorabile c’è il libricino pieghevole inserito nella confezione dell’album, disegnato e auto assemblato a mano da Denny Seim durante le ore in cui arrotonda lavorando da FedEx. Più indie di così si muore.

Sono anni interessanti, non c’è che dire. Un po’ più a nord dell’Oregon, diciamo parecchio più a nord, oltre i confini nazionali, sta crescendo una scena incredibilmente florida, che a vent’anni di distanza ha lasciato ai posteri almeno una band da stadio e innumerevoli exploit artistici degni di nota. Siamo in Canada, dove sono nati gli Arcade Fire, i Wolf Parade, i Broken Social Scene e tanti altri gruppi dei quali parleremo in un’altra occasione. L’alternative-rock è vivo più che mai e i Menomena, dal canto loro, procedono con il loro percorso assolutamente originale. “Friends&Foe” esce nel 2007 ed è un altro mezzo miracolo. Prendiamo l’attacco di “Muscle n’ Flo”, la title track, dove sembra di sentire i Blur, i Radiohead di “The Bends” e tante altre cose tutte insieme. Una forza prorompente, un cantato morbido (questa volta di Justin Harris, che si prende sempre più spazio), una dimensione catchy ed incisiva ma sempre rigorosamente sperimentale: questo sono i Menomena nel 2007, e gli altri picchi di “Friends and Foe” non fanno che confermarlo. C’è la schizofrenica e trascinante “The Pelican”, con una partenza da brividi, capace quasi di far impallidire la traccia precedente. C’è “Wet and Rusting”, ad oggi la traccia più ascoltata della band su Spotify, un deliquio art rock in cui il gioco tra basso e pianoforte resta forse uno dei fraseggi strumentali più importanti dell’indie anni ’00. Da perdercisi dentro, ancora e ancora. C’è infine – in realtà ogni brano meriterebbe una menzione – la splendida “Boyscout’n” col suo prologo da rullo di tamburi e fischietto (!), prima di una delle melodie migliori partorite dalla band di Portland, melodia che ovviamente implode su strade ambigue e inquiete.
Forse è questo il capolavoro della band, il momento in cui la loro musica decide di farsi granitica e inamovibile, un pilastro con cui deve fare i conti chiunque voglia indagare musicalmente un’epoca.
Ma è davvero così?

L’album successivo, “Mines” esce nel 2010 e catapulta i Menomena in giro per il globo sui palchi di tutti festival più importanti. Eppure, qualcosa sta già cambiando. L’offerta di art-rock inizia ad essere satura, sempre più band propongono una formula simile, fatta di perizia strumentale ai limiti della pedanteria, sperimentazione caotica ed incoerente, cantato obliquo e testi incomprensibili. È una gara a chi vuole più strafare, ma i Menomena riescono nella difficile impresa di rimanere se stessi, smussando qualche spigolo in un momento in cui si punta ad eccedere. “Mines” ha al suo interno almeno 5 o 6 pezzi memorabili, tra i quali “Taos”, senza dubbio una delle migliori canzoni della band, “Queen Black Acid”, “Lunchmeat” e “Oh Pretty Boy, You’re Such a Big Boy” e “”Five Little Rooms”. Per quelli che hanno voglia di riassaporare queste sonorità forse per la sua maggiore accessibilità ed immediatezza è proprio “Mines” il primo l’album dei Menomena da rispolverare.

Ad un anno dall’uscita dell’ultimo disco e a tour non ancora terminato, Brent Knopf abbandona la band. In maniera pacifica, apparentemente, per concentrarsi sui Ramona Falls, il suo side project, e per cercare nuovi stimoli creativi. Danny Seim e Justin Harris all’epoca ci scherzarono su, dicendo che i Menomena avevano perso il loro Peter Gabriel, ma la realtà è che l’abbandono di un membro cardine è spesso l’inizio della fine. I due Menomena restanti non si danno per vinti e danno alle stampe “Moms”, un’opera sofferente e sofferta che chi scrive recensì in modo entusiastico nel 2012. Con il senno di poi la votazione di 80 su 100 è eccessiva. “Moms” è un disco che tende verso un melancholic rock più radiofonico e, a tratti, un po’ autoindulgente. Inoltre, in alcuni brani il sound è davvero troppo simile agli ultimi Blur, quelli di “Think Thank”, per intenderci. Sia chiaro, tanta roba comunque, più di quanto decine di band simili possono dire di aver raggiunto in tutta la loro carriera. Ma il loro momento è ormai passato.
Io li vidi a Berlino nel 2013 e lo show fu a malapena sufficiente. Seim e Harris si alternavano agli strumenti e al cantato eppure la resa sonora fu discontinua, complice anche un soundcheck infelice. Era quasi come se il palco e la strumentazione ridotta non potessero contenere tutto quel suono, come se il duo che era stato un trio non potesse reggere da solo la responsabilità di quelle melodie. Senza mai ufficialmente sciogliersi, i Menomena scomparvero dalla scena.

Brent Knopf negli anni ha continuato a coltivare il suo progetto solista Ramona Falls, tuttavia non si è mai avvicinato ai fasti dei Menomena. Seim ha messo su famiglia e ha tirato fuori dall’armadio il progetto Lackterhof, accompagnato da Bryan Devendorf dei The National, mentre Justin Harris, incredibile ma vero, è diventato batterista dei Bloc Party.
Ora, a distanza di 12 anni, i tre si riuniscono per un concerto e si fanno intervistare da Pitchfork senza però dichiararsi al lavoro su nuova musica. Chissà. Se i Menomena dovessero tornare sulla scena, qualcuno li ascolterebbe ancora? E soprattutto: cosa resta oggi di quel sound?