Discografia commentata: tutti i dischi dei Pavement

testo di Marco Antonio Barbosa

Dire che i Pavement hanno inventato l’indie rock è un’imprecisione. Non si “inventa” da soli un genere che dipende da tante referenze precedenti e con così tanti altri creatori contemporanei. È più esatto affermare che la band guidata da Stephen Malkmus ha consolidato l’IDEALE dell’indie rock nell’immaginario collettivo degli anni ’90: un modello composto da suono, immagine, interviste, influenze, attitudine e altre idiosincrasie.

Ci sono stati precursori di diritto, ma non di fatto. C’erano scene – New York, Minneapolis, Athens. C’erano band cruciali – R.E.M., Husker Dü, Sonic Youth, Yo La Tengo. Ma prima dei Pavement, non c’era una band che sintetizzasse, in un unico pacchetto, l’essenza dell’essere indie. Troppo intelligenti per distruggersi nel viaggio autolesionista del proto-punk, troppo sensibili per essere punk e troppo spontanei per il post-punk calcolatore… eppure, hanno usato tutte queste influenze per creare qualcosa di radicalmente nuovo. Il tortuoso flirt con il mainstream è stata la ciliegina sulla torta. Niente di più indie anni ’90 che arrivare alle porte del successo e scappare terrorizzati di fronte alla prospettiva.

La discografia dei Pavement è, a prima vista, concisa: cinque album. Tra le righe, c’è una ricchezza di EP, lati-B, scarti di studio, registrazioni dal vivo, cover e demo che aiutano a organizzare i 10 anni di storia dell’incarnazione originale della band (e oltre). Il testo che segue, considerando solo i dischi ufficiali, tenta di ripercorrere la traballante traiettoria della più importante band indie degli anni ’90… la band indie originale.


DISCHI IN STUDIO

“SLANTED AND ENCHANTED” (1992)
Nessuno era preparato per “Slanted and Enchanted” nel 1992. Anche la manciata di indies (il termine nemmeno esisteva propriamente, almeno non qui) che conosceva gli EP precedenti deve essere rimasta sorpresa da quel insieme di melodie fischiettabili, testi impenetrabili e composizioni dalla struttura imprevedibile. Non esisteva un genere in cui collocare la band. “Lo-fi” si riferiva alla forma e “slacker rock” al contenuto, ma nessuna classificazione preesistente sembrava adeguata. Le influenze a volte sfioravano quasi la parodia (“Conduit For Sale!” è la canzone più The Fall mai scritta da Mark E. Smith), ma restavano quasi sempre sfumate. I Pavement del 1992 ricordavano Velvet, Sonic Youth, Pixies. Tuttavia, la personalità propria del trio dell’epoca era sempre il tratto dominante: la crudezza della registrazione, la fluidità trasandata dello strumentale, i ritmi storti, a cura del hippie Gary Young (1953-2023), i vocali vaghi, l’arte del fai-da-te della copertina, la delicatezza alternata al noise isterico. L’innovazione: iniettare un lirismo intuitivo nell’eredità proto e post-punk. Il disco può oscillare tra il tagliente e il rassicurante, ma nulla suona calcolato – anche se lo è, attentamente. L’indie rock americano degli anni ’90 si affermava lì. Stephen Malkmus ha affermato più di una volta che l’album di debutto è il migliore della loro discografia, per la sua “energia irripetibile”. Potrebbe non essere il migliore, ma è senza dubbio il “più Pavement” dei dischi dei Pavement. Quando si pensa alle canzoni più caratteristiche della traiettoria della band, vengono immediatamente in mente “Here”, la ballata indie definitiva; la dissonanza intrigante di “In the Mouth a Desert”; il surf rock zen di “Summer Babe”; l’asimmetria pop di “Trigger Cut/Wounded Kite at :17” e “Loretta’s Scars”. C’è una bellezza indefinibile lì, anche nei momenti più aggressivi (“No Life Singed Her”) o sconnessi (“Fame Throwa”) – la bellezza di esplorare territori non mappati, trovando una sorpresa in ogni traccia.

“SLANTED AND ENCHANTED: LUXE & REDUXE” (2002):
Commemorando i 10 anni dall’uscita originale, questa edizione in doppio CD più che triplicava la durata dell’album. Tra le sue 34 tracce bonus, ci sono veri gioielli, ma è necessario avere la disposizione per scavare. “So Stark (You Are a Skyscraper)” è forse la migliore canzone a non figurare negli LP originali della band. Ma “Frontwards” e “Greenlander” non sono molto da meno. Ci sono versioni alternative di “Summer Babe” e “Here”; lati-B dei singoli dell’epoca; l’EP “Watery, Domestic” (1992) nella sua interezza. E un intero concerto registrato a Londra, nel 1992, con due rarità nella scaletta (“Home” e “Baby Yeah”). Questo rilancio ha aperto la strada all’esplorazione di un vasto archivio di b-sides, demo e registrazioni dal vivo che avrebbero visto la luce negli anni successivi.


“CROOKED RAIN, CROOKED RAIN” (1994)
“Chitarre suonate in modo così sciolto e sicuro, che sembra stiano sorridendo verso di te.” Il giornalista Erik Davis scrisse (su Spin, nel 1992) questo a proposito di “Slanted and Enchanted”. Ma la frase si applica alla perfezione anche all’LP successivo. Tutte le tracce di “Crooked Rain, Crooked Rain”, anche le più cupe e/o misteriose, sembrano sorridere all’ascoltatore. Dall’apertura con “Silence Kit” (e la sua melodia rubata da “Everyday” di Buddy Holly) alla chiusura apoteotica con “Fillmore Jive”, l’album irradia una spontaneità solare. Nonostante tutta la stranezza, non smettevano di essere una band della California. È come se Malkmus aprisse la bocca e cantasse la prima cosa che gli venisse in mente, e la band lo seguisse – questa storia orale della registrazione dell’album dipinge un quadro diverso: il produttore Bryce Goggin influenzò decisamente il formato finale delle canzoni, tagliando e incollando overdub e reincidendo parti durante il mixaggio. Goggin insistette anche per mantenere il famigerato verso sugli Smashing Pumpkins e i Stone Temple Pilots nella coda di “Range Life”. I Pavement ora erano una vera band, con Malkmus e Scott Kannberg completati da Mark Ibold (basso), Steve West (batteria) e Bob Nastanovich (percussioni, tastiere, urla). La nuova formazione potrebbe aver perso l’“energia irripetibile” del primo disco, ma riuscì a creare un suono più rotondo e universalmente accattivante… senza scartare le idiosincrasie che li avevano resi famosi in primo luogo. Sai quanti artisti hanno fallito nel tentativo di fare lo stesso? L’autocombustione del primo album appare solo nella magnifica “Unfair”, ancora oggi un punto alto delle scalette. Non a caso, veniva subito dopo la bella e disorientata/disorientante “Newark Wilder” – che non viene suonata dal vivo dal 1994. Il resto del disco ha un ritmo lento e cadenzato, in cui le tracce si susseguono come in una suite: la radiosa “Elevate Me Later” si lega alla disforme “Stop Breathin’”; l’ironia trasandata di “Heaven Is a Truck” introduce il caos controllato di “Hit the Plane Down” (l’omaggio di turno ai The Fall). Per i non iniziati, sarà sempre l’album che contiene “Cut Your Hair”, “Gold Soundz” e “Range Life”, l’album che ha portato la band su MTV e al Lollapalooza. Prove che i Pavement potevano suonare pop senza smettere di essere Pavement. Quando ne avevano voglia, ovviamente.

“CROOKED RAIN, CROOKED RAIN: LA’s DESERT ORIGINS” (2004):
L’approccio completista della precedente riedizione è stato applicato di nuovo qui. Due CD, 49 tracce, 25 delle quali mai pubblicate prima. Ma come suggerisce il sottotitolo, c’è un’enfasi sulle “origini” dell’album, con più versioni embrionali e demo che mostrano il processo creativo della band. “Range Life” (ancora con Gary alla batteria), “Heaven Is a Truck”, “Stop Breathin’” e “Elevate Me Later” (chiamata “Ell Ess Two”, o “Loretta’s Scars 2”) sono alcuni esempi. Ci sono anche tracce anticipate di “Wowee Zowee”, come “Grounded”, “Flux = Rad” e “Kennel District”. Tra la profusione di lati B, spiccano due riferimenti ai R.E.M.: una cover molto irriverente di “Camera” e “Unseen Power of the Picket Fence”, la cui improvvisata citazione testuale include varie canzoni del gruppo di Michael Stipe. Oltre alla delicatezza di “Strings of Nashville”, uno dei lati B più amati della band. Probabilmente il più essenziale dei cinque rilanci.


“WOWEE ZOWEE” (1995)
E sì, nel disco successivo i ragazzi non ne avevano proprio voglia. Originariamente pubblicato in doppio vinile (con il lato D vuoto), “Wowee Zowee” era il suono di una band che aveva raggiunto la soglia del mainstream, non aveva apprezzato l’atmosfera e aveva fatto marcia indietro. Non era questione di fare un album con 12 versioni diverse di “Cut Your Hair”; bastava pubblicare un disco “normale” dei Pavement. Malkmus, tra l’istinto e la deliberata perversione, si rifiutò. Il risultato è un capolavoro contorto, cultuato dai fan più radicali come il grande disco del gruppo. Se il primo disco riassumeva l’essenza dei Pavement, il terzo caricaturava quella stessa essenza. Restava all’ascoltatore ridere insieme a loro. L’apertura, con la malinconia acustica di “We Dance”, ingannava i non avvisati – ho sempre considerato questa canzone come un parallelo transatlantico al sentimento evocato dai Radiohead in “The Bends”, l’album, pubblicato solo poche settimane prima. Da lì in avanti, la band continua a mordere e a soffiare. “Rattle by the Rush”, la presunta traccia di lavoro, era sabotata da un ritmo strozzato. Così come la languida e stonata “Motion Suggests”, disturbata da un’intro dissonante. La struttura di “Grave Architecture” crolla nel mezzo della canzone, dopo un attacco isterico di Malkmus. “Fight this Generation” sembra un Frankenstein fatto di tre o quattro canzoni diverse. Vari momenti, come “Serpentine Pad”, “Best Friend’s Arm” e “Extradition”, rimandano alla goliardia dei singoli pre-“Slanted”. E niente di tutto ciò è un demerito per l’album. Anzi, tutt’altro. Recensioni contemporanee indicavano la “mancanza di vere composizioni” nel disco, cosa un po’ ingiusta. Nonostante sia l’album più intenzionalmente sfidante del quintetto, “Wowee Zowee” ha momenti che strizzano l’occhio a una possibile progressione dal punto in cui si erano fermati con “Crooked Rain” – “Grounded”, “Father to a Sister of Thought” (figlia spirituale di “Range Life”) e “Kennel District”, il grande momento di Scott Kannberg sotto i riflettori. Resta la domanda per la storia: e se?

“WOWEE ZOWEE: SORDID SENTINELS EDITION” (2006)
Se l’album “vero” era già un patchwork, cosa ci si può aspettare da questo raschiare il fondo del barile? Outtakes, sessioni radiofoniche, lati B e registrazioni dal vivo compongono un insieme meno coerente rispetto alle prime due ristampe. Almeno, vale la pena per le quattro tracce dell’EP “Pacific Trim”, incluso integralmente (“Give It a Day” è una piccola perla), la sarcastica “Sensitive Euro Man”, dalla colonna sonora del film “Eu Atirei em Andy Warhol”, e “Mussle Rock (Is a Horse in Transition)”, un contributo di Scott sopra la media. Le registrazioni dal vivo, tuttavia, potrebbero essere più interessanti. L’atmosfera improvvisata di “Wowee Zowee” contamina persino le versioni destrutturate di canzoni “normali”, come “Heaven Is a Truck” e “Box Elder”.


“BRIGHTEN THE CORNERS” (1997)

Dopo l’eccesso, arrivano i postumi della sbronza. Il quarto album dei Pavement è il più convenzionale di questa discografia, il più esplicitamente melodico, il più dolce e rilassato. Come il titolo fa prevedere, “Brighten the Corners” cerca di illuminare la musica della band. Pentiti dell’eccesso di “Wowee Zowee”, si sono ritirati per cercare di ritrovare la strada di “Crooked Rain”… sarebbero andati troppo oltre? Il fatto è che Malkmus non è mai suonato così dolce come in “Shady Lane” (che ha uno dei migliori versi della band: “Sei stato scelto come un extra nell’adattamento cinematografico del seguito della tua vita”). Né così delicato come in “Transport Is Arranged”, o così placido come in “Type Slowly”, o così rilassato come in “Starlings of the Slipstream”… Più di tutti gli altri in questa lista, “Brighten the Corners” è un album che richiede tempo e attenzione per rivelarsi completamente. Oltre alla complessità delle composizioni, qualcosa che mancava in “Wowee Zowee”, il tratto più distintivo è un tono generale di “morbidezza”. Alcuni critici hanno interpretato lo stile come un’influenza sottile del soft rock anni ’70: Eagles e Fleetwood Mac reinterpretati da hipster amanti della cannabis, 20 anni dopo. C’è sì una predominanza di brani lenti, ma ognuno ha le sue caratteristiche molto distintive. Come il canto trascinato/accelerato/calmato/esaltato di “Type Slowly”; la quinta marcia inserita a metà di “Embassy Row”, l’unico passaggio più esaltato dell’LP; l’entrata psichedelica di “We Are Underused”. L’album si conclude con la solenne e lunga “Fin”, praticamente un epico alla Neil Young nel quale Malkmus supplica: “Confido che mi dirai / Se sto facendo una figura da pirla”. Suono e testo – oltre al titolo ovvio, se letto in francese – evocano l’idea di addio. C’era ancora, però, energia per un altro tentativo.

“BRIGHTEN THE CORNERS: NICENE CREEDENCE EDITION” (2008)
Con una selezione che attraversa gli ultimi due album dei Pavement, questa ristampa arricchisce notevolmente il disco originale. Ad esempio, c’è la versione integrale di “The Hexx” (ribattezzata “And Then”), più lunga e cupa rispetto a quella ufficiale. Ci sono cover dei The Fall (“The Classical”) e degli Echo and The Bunnymen (“The Killing Moon”), con Malkmus che riversa il suo cuore post-punk. E una dei Faust (“It’s a Rainy Day, Sunshine Girl”), facendo il ponte con il krautrock. Stranamente, oggi è l’unico album della band che include “Harness Your Hopes”, un lato B del 1999 che, credetemi, è la canzone più ascoltata dei Pavement su Spotify. Per i cercatori di rarità, la chicca è “Nigel”, un outtake mai utilizzato fino ad ora. Tra le inevitabili stranezze, c’è una versione country e accelerata di “Type Slowly”, accreditata come “Slowly Typed”; un’introduzione composta per “Embassy Row” che non è stata utilizzata; e addirittura due (!) versioni della sigla del cartone animato “Space Ghost”.


“TERROR TWILIGHT” (1999)

L’ultimo album dei Pavement ha avuto una gestazione turbolenta. Malkmus era già frustrato dalle limitazioni tecniche e artistiche del resto della band. Lavorando per la prima volta con un produttore di fama (Nigel “OK Computer” Godrich), il quintetto ha avuto difficoltà a mantenere la consueta spontaneità in studio. Gli overdub aggiunti nella fase di missaggio hanno limitato la partecipazione del batterista Steve West in alcune tracce. Il cantante si sarebbe lamentato più tardi del risultato finale, definendo l’album “troppo prodotto”. Questa cattiva atmosfera non traspare nell’ascolto di “Terror Twilight” – anche se i versi “The damage is done / I am not having fun any more” di “Ann Don’t Cry” anticipano la fine imminente. Al contrario: l’album è per lo più leggero e melodioso. C’è ironia e dissonanza, ma c’è anche giovialità aggiunta all’atmosfera tranquilla testata nell’album precedente. “Spit on a Stranger”, “You Are the Light” e “Major Leagues” sono i migliori esempi di questa continuità. La parte beffarda del gruppo, attenuata dal terzo album, ritorna in “Carrot Rope”, la canzone più allegra di questa discografia, e nel country rock di “Folk Jam”. O persino in “Billie”, che inizia leggera e orecchiabile… finché il grido di “SEE THE FORTUNE TELLER!” rovina tutto. Ma anche un Pavement leggero e gioioso non smette di essere Pavement. Ecco perché abbiamo la grinta di “Platform Blues”, con le sue alternanze di ritmo e stile (e un assolo di armonica suonato da Jonny Greenwood); “The Hexx” e la sua psichedelia lenta; e soprattutto la splendida “Cream of Gold”, e il suo riff minaccioso. Nel ritornello di quest’ultima, Malkmus dà un’altra indicazione sul futuro: “Il tempo è un binario a senso unico e io non tornerò più indietro”. Meno di sei mesi dopo il rilascio, il gruppo si sarebbe sciolto.

“TERROR TWILIGHT: FAREWELL HORIZONTAL” (2023)

Per 14 anni, i fan hanno atteso il rilascio deluxe dell’ultimo album. Malkmus ha addirittura affermato che, nell’attuale era del vinile sovrafatturato, non aveva interesse a pubblicare una ristampa accessibile solo ai fan più abbienti. Fortunatamente, la nuova versione di “Terror Twilight” è uscita anche in formato CD (doppio), molto più conveniente. Di tutte le ristampe, è la più radicale e intrigante. L’ordine originale delle tracce è stato modificato, riflettendo la sequenza suggerita da Nigel Godrich (e scartata dalla band). L’album si apre ora con la coppia “Platform Blues” e “The Hexx”, creando un’atmosfera tutto fuorché mite per il lato A; le canzoni più pop sono state spostate verso la fine (“Spit on a Stranger” sarebbe l’ultima!). Una varietà di demo registrate solo da Malkmus mostra il processo creativo del compositore. Il frustrante processo di produzione diventa evidente nelle sessioni registrate prima dell’arrivo di Godrich, con passaggi un po’ incerti su “Cream of Gold”, “Spit on a Stranger” e “Folk Jam”, tra gli altri. Se c’è qualcosa che gioca contro “Farewell Horizontal”, è l’eccesso di ripetizioni nella tracklist. “You Are a Light”, per esempio, appare in cinque versioni diverse. O non così diverse.


RACCOLTE

“WESTING (BY MUSKET AND SEXTANT)” (1993)

Ecco quello che volevi, i Pavement grezzi, i Pavement birichini, i Pavement artistici. Questo album della casa discografica Drag City raccoglie tre EP e un singolo, più due tracce extra, tutto registrato tra il 1989 e il 1992. In altre parole, durante l’era Malkmus-Kannberg-Young, la fase più sfrenata della band. È un viaggio affascinante, dal rumore embrionale dell’EP “Slay Tracks”, del 1989 – o addirittura pre-embrionale, dato che nemmeno si consideravano una vera band – alla sonorità più strutturata del singolo “Summer Babe”, in cui la magia di “Slanted and Enchanted” suonava quasi completa. Alcune delle canzoni hanno raggiunto lo status di autentici classici, come “Box Elder” (che è stata ri-registrata dai Wedding Present), “Heckler Spray” e “Debris Slide”. Altre incarnano il Pavement all’apice della ribellione autodistruttiva (“She Believes”, “Maybe Maybe”, “Recorder Grot”). Essenziale per i fan, rivelatore per chi conosce solo “Harness Your Hopes”.


“QUARANTINE THE PAST: THE BEST OF PAVEMENT” (2010)
Lanciato per guadagnare qualche soldo alle vigilia del primo tour di ritorno della band, questo disco sfugge allo standard dei greatest-hits (quali?). La selezione dei brani, ordinata senza alcuna cronologia, mescola singoli, canzoni dagli album e relative rarità. Anche se non presenta materiale inedito (ad eccezione di una versione alternativa di “Box Elder”), il doppio LP funge da una playlist ben curata per i neofiti. In pratica, è evitabile.


“THE SECRET HISTORY VOL.1” (2015)
Questa storia non è così segreta. La compilation include lati B, sessioni radiofoniche e registrazioni dal vivo del periodo 1990-1992. Ma tutte le tracce “segrete” fanno parte di “Slanted and Enchanted: Luxe & Reduxe”, rendendo l’album un souvenir solo per i completisti più appassionati. Anche i testi nel libretto sono riciclati dalla ristampa di “Slanted and Enchanted”. Per i giovani che non ascoltano più CD, c’è un elemento di attrazione: è stata la prima volta che 25 (su 30) tracce sono state pubblicate in vinile.


DAL VIVO

“LIVE EUROPATURNÉN MCMXCVII” / “LIVE EUROPATURNÉN MCMXCVII (2)” (2008/2009):
Anarchia totale, improvvisazioni, brani interrotti a metà, versioni completamente diverse rispetto agli originali in studio – dal vivo, i Pavement sono sempre stati la band più imprevedibile della loro generazione. C’è un’abbondanza di bootleg e video online per confermare questa affermazione. Questi due dischi, registrati durante un tour europeo nel 1997, sono gli unici registri ufficiali dei concerti della band. Naturalmente, è stata fatta attenzione a selezionare due esibizioni “pulite”, con il quintetto che suona in modo rilassato ma senza eccessi. Versioni estese di “Fin” (su entrambi gli album), “Type Slowly” e “Blue Hawaiian” fungono da contrappunto ai momenti più energici (“Cut Your Hair”, “Stereo”, “Kennel District”). Il paio di album, pubblicati solo su vinile dalla Matador Records (in edizione limitata), sono oggi la più grande rarità di questa discografia. Ma è possibile ascoltarli in streaming.

 Marco Antonio Barbosa è un giornalista (medium.com/telhado-de-vidro) e musicista (http://borealis.art.br).

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