MANNEQUIN PUSSY, “I Got Heaven” (Epitaph, 2024)

Che i Mannequin Pussy, arrivati al loro quinto album in studio con questo nuovo lavoro, siano sempre stati un gruppo versatile e capace di percorrere più generi e stili non è di certo una novità, ma le gradazioni che il gruppo di Philadelphia raggiunge in I Got Heaven sono di uno spettro ancor più ampio e sfumato di quelle dipinte nei dischi precedenti, risultando una sorta di summa delle tante direzioni che finora la band è stata capace di intraprendere: tra aggressivo hardcore, graffiante punk rock e visionarie vibrazioni shoegaze, I Got Heaven sembra esistere sospeso nello spazio e nel tempo.

«And what if we stopped spinning? / And what if we’re just flat?», si domanda, indemoniata, la cantante e chitarrista dei Mannequin Pussy Marisa Dabice in “I Got Heaven”, l’esplosivo pezzo che apre il disco e in un certo senso ne focalizza gli obiettivi: un’incisività della voce sempre maggiore, che è al centro dei brani con nitidezza senza mai perdere quella naturale fusione che crea con gli strumenti che la incalzano, aspetto particolarmente evidente soprattutto nei brani shoegaze e dreamy dell’album, guida le danze in mezzo a una tempesta di chitarre e a una possente ritmica spregiudicate e fulminanti. Dabice, insieme al gruppo, sembra star danzando in un cerchio di fuoco nel bel mezzo degli inferi, ma ribadisce che «I got heaven inside of me / And oh, I’m an angel»; più il brano procede più ci rendiamo conto che è pronta a colpire il suo interlocutore quando meno se lo aspetta. Guerra e pace si trascinano l’una accanto all’altra e nessuna sembra cedere, neanche quando il pezzo termina.

A rendere ancor più gustoso il disco è la molteciplità delle forme che assume. Il pop rintuzzato da spasmi punk e post-rock che è “Softly” sembra essere uscito direttamente dalle corde degli Alvvays ed è tentacolare e ipnotico dalla prima nota all’ultima. Febbrili visioni sognanti e salvifiche caratterizzano episodi originali e sorprendenti come “Nothing Like”, un onirico pop rock che flirta con una melodia che ricorda quelle dei My Bloody Valentine ed esplode in un ritornello che avrebbero potuto partorire gli Smashing Pumpkins. La musica bracca da vicino, come un attento e fidato segugio, le parole. L’altro di cui si parla nel brano si costruisce e si esperisce a partire dai sensi: «Nothing like / The shape of you / Entering a room» canta Dabice, per poi passare alle sue parole e al suo sapore e per arrivare, infine, a «Nothing like / My useless life / It meant close to nothing / Until I breathe the air you breathe». È la canzone di un amore soffocante e totalizzante, un eros come nosos che la cantante non riesce in nessun modo a nascondere: «I fear I can’t hide / That sometimes I want you» ammette candidamente Dabice.

Altrettanto affascinante e seducente è l’energica “Sometimes”, dove a brillare sono anche la raffinatezza e la brillantezza del sound di Maxine Steen, nuova aggiunta nella band, che impreziosisce e tesse un concentrato di fonti d’ispirazione che attraversano ‘80s, ‘90s e anche ‘00s. La conclusione affidata al dream pop ammaliante di “Slit Me Open”, con le sue pause ritmiche e con il tappeto sonoro avvolgente che strumenti e voce creano, indaga le possibilità di un amore che sembra non avere alcun presupposto per esistere: «I’m worried I want you» canta Debice, ma al tempo stesso ribadisce che «I’m asking for time / I’m begging for space», lasciando in sospeso ogni possibile risposta o soluzione. Ancora in bilico tra dream pop, shoegaze e allucinazione lo-fi giunta direttamente dai ‘90s è “I Don’t Know You”, eterea e romantica a suo modo nel rivolgersi a un amato lontano; il suo ritmo incalzante, la delivery di Debice che sembra essere in trance e le chitarre e i synth spettrali che la affollano costruiscono un’impalcatura sonora originalissima e meravigliosa nonché uno dei momenti più incisivi ed esaltanti di I Got Heaven.

Non meno intriganti sono i brani più aggressivi del progetto, come la sontuosa “Loud Bark”, caratterizzata dalla pregevole costruzione di una climax vertiginosa che leviga le esplosioni del rabbioso chorus, con il suo incandescente e martellante «I’ve got a loud bark, deep bite» che si ripete fino a raggiungere la poderosa akmè del brano. Colpisce anche la bolgia delirante di “OK? OK! OK? OK!”, un frenetico dai-e-vai vocale tra le grida del bassista Colins Regisford e quelle di Debice che si appiccicano a un ritmo frammentario e singhiozzante che cambia di continuo. Il lato punk dei Mannequin Pussy emerge con tutta la sua veemenza e sincerità anche nelle brevi schegge che sono “Of Her”, accecante e propulsiva nel suo minuto e mezzo di tensione, e “Aching”, un altro portentoso tornado di richieste, rivelazioni e tormenti: «I wanna feel it from the top» canta Debice, per poi aggiungere, nella feroce conclusione, «Just tell me what you need», apoteosi di un percorso che era iniziato con una dolce confessione, «I just wanted to feel human», lanciata in mezzo a un clima di tensione e di ombre cupe.

Nel marasma di proposte e di intenzioni che è, I Got Heaven risulta a tutti gli effetti il miglior passo avanti che in questo momento della loro carriera i Mannequin Pussy potessero fare. A sorprendere sono non tanto le caleidoscopiche influenze del gruppo e la loro capacità di modularsi e modellarsi in base al genere esplorato in un certo o al mood che crea in un altro, tutti pregi che già conoscevamo bene, quanto l’autorevolezza e la consapevolezza con le quali queste abilità qui emergono, dosate e amalgamate con convinzione e con coerenza da ciascun membro del gruppo, un’orchestra affiata e rodata che in questo momento è uno dei gruppi rock americani più interessanti e trascinanti.

81/100

(Samuele Conficoni)