[#tbt] Pretty Songs Make Graves: il debutto degli Smiths compie 40 anni

«It’s time the tale were told / Of how you took a child / And you made him old»: che i primi tre versi di “Reel Around the Fountain”, il dolce e al tempo stesso spiazzante brano che apre il disco di debutto eponimo degli Smiths, abbiano sconvolto – non meno, a dir la verità, di quasi tutti i versi seguenti del medesimo pezzo – più di una generazione di critici, di appassionati e di semplici, financo disattenti ascoltatori è cosa piuttosto certa e risaputa. Di che cosa sta cantando Morrissey mentre le sue parole e la sua melliflua delivery vengono cullate da magnetici accordi di chitarra, da tastiere claustrofobiche e da un ipnotico drumming? Forse di un tragico abuso sessuale subito in gioventù che, a distanza di anni, viene riletto quasi con nostalgica passione da chi lo ha subito, oppure di un incubo ricorrente che costruisce una favola moderna a tinte cupe che vuole scandalizzare e spaventare chi l’ascolta. Non lo sapremo mai, dal momento che i successivi versi, «Fifteen minutes with you / Well, I wouldn’t say no / Oh, people said that you were virtually dead / And they were so wrong», non sciolgono i dubbi ma li amplificano.

Sono probabilmente queste la cifra poetica e l’eredità testuale più rilevanti e affascinanti che gli Smiths di Morrissey, di Johnny Marr, del compianto Andy Rourke e di Mike Joyce ci hanno consegnato, e che emergono con così enorme potenza già nella traccia che dà il via al loro primo LP, The Smiths, che usciva per la Rough Trade esattamente questa settimana quarant’anni fa. Anche a livello musicale questo debutto forniva già tutti gli indizi che servivano per evidenziare quanto originale e intensa fosse la formula che gli Smiths offrivano. L’estetica decadente di Morrissey, i cui testi guardavano tanto ai Maudits quanto a Oscar Wilde, a John Keats – da cui Morrissey avrebbe ironicamente preso le distanze qualche anno dopo in “Cemetery Gates” – e addirittura a Charles Dickens per il realismo sociale che in certi casi penetravano, lo avrebbe reso in breve tempo quell’ «anti-pop idol» descritto da Mark Simpson che, con la sua carica magnetica, rappresentava straordinariamente la disamorata gioventù britannica che aveva ormai smesso di combattere persino contro le politiche di Margaret Thatcher tanto delusa e nichilista era diventata. Le piogge di note di Marr, genio chitarristico e melodico dalla sensibilità e dal tocco unici, riempivano i singhiozzi di Moz con una stravaganza quasi ironica e beffarda.

«The devil will find work for idle hands to do», recita con tono serio e andamento marziale Moz in “What Difference Does It Make?”, un brano cupo come gran parte di The Smiths è, in un perfetto e precario equilibrio tra febbrili visioni new wave e graffiante rabbia post-punk. Il primo singolo della band, “Hand in Glove”, era uscito quasi un anno prima ed era una perfetta sintesi di queste pulsioni: «Kiss my shades», cantava Morrissey con sdegno e liberazione, «The sun shines out of our behinds / Yes, we may be hidden by rags / But we’ve something they’ll never have». Il pezzo si districa tra enigmatiche comparse di nemici sconosciuti, quel “they”, e la consapevolezza di qualcosa che solo il narratore e la sua gang, “we”, possono vantare. Quel «I’ll probably never see you again» ripetuto in modo asfissiante sul finire del brano carica l’aria di tensione e di ansia ma, soprattutto, è il sigillo perfetto per chi decide di abdicare a responsabilità che non sente più come sue e dalle quali vuole allontanarsi al più presto; per non parlare del fatto che, solo tre anni e mezzo dopo, quel verso sarebbe diventato il perfetto epitaffio della band, una frase che Moz e Marr avrebbero potuto ripetersi reciprocamente dal giorno dello scioglimento del gruppo a oggi.

Conflitti generazionali, filosofici ed estetici – alle allora imperanti proposte dei New Romantics la spontaneità e la radicalità degli atteggiamenti di Moz erano una risposta polemica gustosa e divertita – permeano la musica degli Smiths dal primo all’ultimo disco. Morrissey, non meno del suo coevo «anti-pop idol» Robert Smith ma in una declinazione differente, celebra la solitudine, la necessità di fare un passo indietro pur di non mescolarsi alla massa, la scelta di non fare e di non dire se si deve fare o dire qualcosa di banale. Canta dell’alienazione e della disperazione di sé e dei suoi coetanei, del disagio che si può provare quando si è innamorati, di cui non ci si dovrebbe mai vergognare, nonché di quello che si può provare verso il concetto stesso di amore tradizionale, della diversità come valore e non come deviazione. Che si tratti delle «pretty girls» che «make graves», protagoniste di un brano in cui il narratore ripete con fermezza «I’m not the man you think I am», o del «Please stay with your own kind» dell’estrosa “Miserable Lie”, un altro pezzo chiave della filosofia smithsiana, Moz rovescia un imprecisato numero di luoghi comuni e propone a coloro che sanno ascoltarlo ideali e paradigmi alternativi a quelli maggioritari, che non sono incisi sulla pietra ma che sono, anzi, fascinosamente liquidi e sbiaditi.

Quello che gli Smiths, sin dal disco di debutto, sembrano voler creare, infatti, è un mondo di valori nuovi o, sarebbe meglio dire, un mondo che non necessiti di valori, in netta opposizione a quelli malsani, finti e ipocriti che il mondo reale e la società contemporanea proponevano o imponevano. «Does the body rule the mind / Or does the mind rule the body?», si domanda freneticamente Moz in uno degli altri brani simbolo del disco, “Still Ill”, un rabdomantico ciclone di impressioni, certezze e timori che corre come un treno in una tragica e gelida nottata. Malinconici, riflessivi e talvolta impregnati di uno humor sottile, arguto e non sempre facile da decifrare, i testi di Moz si distaccavano da quelli di qualsiasi altro gruppo britannico o statunitense di quel tempo e divennero ben presto il manifesto di un nuovo modo di pensare e di (non) agire, la trionfale controparte musicale dell’ «I prefer not to» del Bartleby di Melville. Per citare ancora Simpson, le liriche degli Smiths erano «so intoxicatingly melancholic, so dangerously thoughtful, so seductively funny that it lured its listeners […] into a relationship with him and his music instead of the world»: una sorta di “autismo poetico” che, per tener lontani gli orrori esterni, costruiva un universo autonomo che non eliminava gli ostacoli e le insidie ma li “immetteva” dentro a fiabe paradossali e sinistre.

È in questa magica ambiguità di cui è imbevuta l’opera intera degli Smiths, che resta confinata a quei quattro magici anni, che si solidificano e si rinnovano la loro grandezza e singolarità. Quelle note e quelle parole risuonano ancora oggi con una rilevanza e con un vigore sbalorditivi. Il dolore e la malinconia che scorrono in quei solchi non condannano a una tristezza irrimediabile; cercano, piuttosto, di sparigliare le carte in tavola, disorientando, lacerando, interrogando chi trovano di fronte, anche quando sono sconvolgenti e impenetrabili. Si pensi, per esempio, al pezzo che chiude il disco, “Suffer Little Children”, palesemente ispirato agli infanticidi perpetrati dai coniugi Moor a Manchester circa vent’anni prima dell’uscita dell’album, o alla angosciante ninnananna gotica che è “The Hand That Rocks the Cradle”, che pare cantata da un vampiro. The Smiths è il primo, grande lascito di una band eccezionale che immediatamente dopo questo debutto avrebbe esplorato nuove direzioni dal punto di vista musicale, allontanandosi maggiormente da certe sfumature post-punk e new wave ancora dominanti in questo debutto, ma che avrebbe mantenuto e sviluppato con una profondità e una consapevolezza ancora maggiori la poetica che qui aveva inaugurato e, in nuce, già saputo veicolare con una schiettezza così spericolata e ardita da lasciare confusi e sfiancati.