THE SMILE, “Wall Of Eyes” (XL Recordings, 2024)

Some say the world will end in fire,
Some say in ice.
(Robert Frost, 1920)

Di tutte le discussioni che in questi giorni hanno animato il ritorno degli Smile, creatura tricefala dalle strutture musicali impervie e inusuali, ce n’è una che mi pare meno considerata: perché la loro proposta è indicata da molti come una delle più contemporanee in giro? È per l’importanza intrinseca del duo Yorke-Greenwood? Può darsi. È per l’avere indicato una via parzialmente poco battuta tra la melodia e l’atonalità nell’ambito più generale del pop? Non lo so: è difficile scorgere nella proposta degli Smile qualcosa di radicalmente nuovo, tanto che più di qualcuno ha scomodato il progressive, inteso nel suo primigenio significato di progressione dell’allora esistente rock in chiave maggiormente classica e complessa strumentalmente. Io direi che il punto di maggiore fuoco dei tre musicisti è per via dell’aleggiare della tematica della “fine del mondo”: sia musicalmente ma soprattutto a livello di impianto visivo-letterario, “Wall Of Eyes” rimanda a quell’indefinita paura che da qualche anno ci pervade le vene, ovvero quella della fine dei tempi. Il decennio di cui ci occupa, naturalmente, è stato – ed è – caratterizzato da una enorme pandemia e da almeno un paio di guerre totalmente destabilizzanti di cui si fatica oggi a prefigurarne i futuri contorni (Ucraina e Palestina), e discorsi di guerre nucleari sono tornati a fare capolino in controtendenza con le direttrici di disarmo nucleare perseguite quantomeno da metà anni ’80 in poi. Tanto basta per rendere comuni e trasversali i timori di una qualche catastrofe mondiale che inghiotta, quantomeno parzialmente, la civiltà fino a qui raggiunta. Ebbene, gli Smile a mio parere rappresentano plasticamente tutto ciò fin dall’apocalisse di copertina, come sempre magnificamente dipinta da Stanley Donwood: gli occhi che fluttuano a mezz’aria possono sì essere “occhi della provvidenza” di generazione divina ma così, a spanne, paiono più dei bombardieri in arrivo scomposto in una terra basica e fluttuante tra rocce impervie, fiumi lacrimanti e magma ribollente. Questi occhi volano ma non sono come gli occhi alati di Leon Battista Alberti, sembrano citare piuttosto il fondale dipinto da Dalì e usato da Alfred Hitchcock per il film Io ti salverò (1945) in una scena onirica.

Alfred Hitchcock, Io ti salverò (1945), il sogno di Gregory Peck con le scenografie di Salvador Dalì

Qualunque sia il significato di questo “muro di occhi” che si impone sia in copertina che nel titolo, e cioè se abbia un substrato più catastrofico, trascendente o di sogno, è certamente perturbante. Ma l’inquietudine non è solo lì, è soprattutto nel passaggio testuale in “Teleharmonic” (“In all that fire and ice”) che cita la poesia di Robert Frost che allude specificatamente all’Apocalisse con immagini poetiche aventi un substrato scientifico, perché davvero la fine di tutto potrebbe avvenire sia un’esplosione che con una glaciazione. Le liriche di Yorke hanno spesso una duplice valenza, e possono essere lette sia in ottica personale (e quindi quel peregrinare senza sicurezza di una meta in “Teleharmonic” potrebbe rappresentare il difficile viaggio personale di chi ha già perso una (ex) moglie) che in una chiave più ampia collettiva, ma il lato politico di Yorke è spesso sottovalutato: basti ricordare il concept che si riferiva al “ladro Bush” in “Hail To The Thief” (e l’artwork di Donwood che rappresentava anche il reticolo di vie di Baghdad) così come la scelta politica del “paga quanto vuoi” di “In Rainbows” e del tour “ecologicamente sostenibile” del 2008 (1). Così come sarebbe in lato sensu politica, o forse meglio “sociale”, un’interpretazione possibile dei primi versi della titletrack:

Down a peg or two, you will go
Behind a wall of eyes
Of your own device
Is that still you?
With their hollow eyes

“Gli occhi dietro al dispositivo” potrebbero infatti non essere quelli che ci spiano, ma quegli interminabili e inutili pareri personali che i social giornalmente ci restituiscono cosicché da formare un composito quanto straniante muro di rumore di fondo, che – se seguiti – non ci permettono di essere noi stessi. Così come è alienante accorgerci della corruzione dilagante dei “i soldi che sono finiti all’amico dell’amico” (“Friend Of A Friend”) quando le persone “normali” “escono per chiacchierare, salutarsi e prendersi un po’ di sole, lasciando le finestre e le porte di case spalancate”, dal tanto che si fidano:

Friends step out to talk and wave and catch a piece of sun
I guess I believe in an altered state
Where they leave their windows and their doors open wide

Qual è la via d’uscita? Confrontarsi con le nuove generazioni, così come fanno i tre nel video di “Friend Of A Friend” (di Paul Thomas Anderson) suonando in una scuola primaria londinese, o abbandonare tutto, sentimento espresso in “I Quit” dove Thom mette direttamente in connessione il fare un passo indietro con una meglio non identificata “fine del viaggio”.

I quit… This is my stop
This is the end of the trip

Questo accade nell’album visto dalla prospettiva testuale e di progetto visuale, ma è la musica che amplifica tutto ciò: come non riconoscere queste paure e difficoltà nei passaggi atonali della London Contemporary Orchestra, nei colpi di batteria sempre più rarefatti (e quindi ancor più autorevoli) di Tom Skinner, nel bending (in questo caso inteso proprio come accordatura delle chiavi meccaniche della chitarra) al limite del fastidioso di Jonny Greenwood in “Bending Hectic”?

“Wall Of Eyes” è pertanto un album completo nella sua coerenza, ed è un vero passo in avanti rispetto al primo “A Light For Attracting Attention”: se quello poteva essere considerato un divertissement, un disco fatto in pandemia e creato in remoto tra tre grandi che si mettevano insieme un po’ per gioco e un po’ per esigenza di non stare fermi, e quindi inevitabilmente ondivago, questo “Wall Of Eyes” è compatto e coeso come solo una band che ha già un tour assieme alle spalle può fare. I tre sono diventati una vera band, non sono più un side project. E le riserve che si potevano avere circa la mancanza di una direzione definitiva di “A Light For Attracting Attention”, qui vengono spazzate via: i Radiohead sono il lato pop di Yorke/Greenwood, Yorke “sfoga” la sua anima elettronica nel suo progetto solista/Atoms For Peace mentre Greenwood persegue le sue colonne sonore, e qui il tutto trova una strana ed aliena summa più elevata delle relative ambizioni soliste attraverso una rilettura jazz che Skinner aiuta a consolidare e una chiave orchestrale molto amata dai due Radiohead che non sempre riescono a trasferire nella band oxfordiana “a cinque”. Il sottoscritto definì “la svolta orchestrale” “A Moon Shaped Pool” (2016) e forse a posteriori tale definizione ad effetto fu esagerata, ma i semi di questo lato esploso così prepotentemente in The Smile c’erano già tutti allora, e non è magari che siano un po’ indigesti agli altri? Del resto, se guardiamo bene, O’Brien si è dato al pop-rock (“Earth” del 2020), Selwey ha continuato nel suo discorso intimista (“Strange Dance” del 2023) e Colin Greenwood è andato in tour con Nick Cave nel 2022/23, quindi tutti hanno trovato la loro collocazione in generi molto diversi da quello esplorato dagli Smile.

La volontà degli Smile di crearsi una propria strada è infine sottolineata da quella assoluta novità di non farsi produrre da Niger Godrich, optando per Sam Petts-Davies che aveva già collaborato con Yorke nella colonna sonora di “Suspiria”, e torniamo al discorso di focalizzare l’aspetto orchestrale del trio: Petts-Davies lo fa utilizzando molto spesso reverberi hauntologici laddove invece Godrich prediligeva la presenza di suoni elettronici senza effetti di sorta, e questo crea una nebbia di fondo in cui sguazzano i rivoli incerti e oscillanti delle trame di Yorke/Greenwood e i tempi dispari di Skinner.

Cosa rappresenta bene “Wall Of Eyes” ce lo dirà solo il tempo, perché siamo al cospetto di un album intricato e complicato, con diversi piani di lettura sonori e testuali, ma per ora possiamo dire che di musica di questa importanza ne avevamo proprio bisogno.

85/100

(Paolo Bardelli)

(1) Il substrato “politico” di molte delle scelte dei Radiohead è ben evidenziato nel documentario francese “Soundtrack for a Revolution” (2019)