“Io capitano” di Matteo Garrone: storie di sopravvivenza con significati universali

Io capitano di Matteo Garrone (ormai noto, per i film precedenti Gomorra, Reality, Il racconto dei racconti, Dogman, Pinocchio) è un film ad ampio respiro socio-culturale internazionale.

immagine per Io capitano di Matteo Garrone. Da storie di sopravvivenza a significati universali.

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Finalmente un film italiano che esce da quegli schemi ormai stratificati su storie o storiacce di medio borghesi, più o meno benestanti ed educati, pieni di banali situazioni e soprattutto di patetici vizi nostrani.

Qui si parla di Africa, che è ormai una parola (od un continente) che fa sussultare chiunque abiti in un paese cosiddetto civilizzato che dispone grosso modo di mezzi economici più che essenziali (paesi da vecchio capitalismo e nuova povertà).

In Africa invece, oltre le guerre, le endemiche sopraffazioni dei poteri più forti (colpi di Stato e Dittature), la persistente corruzione generale, le arretratezze di vita e di cultura e l’estrema povertà, frutto di quel secolare sfruttamento territoriale e fisico e ora dello spietato neocolonialismo economico, il problema più pressante e, apparentemente senza soluzioni, è diventato quello degli incalcolabili ed incontrollabili flussi migratori verso il continente europeo (sic!).

Vogliamo invece parlare della instabilità di quel continente, voluta dai paesi che hanno ancora bisogno di sfruttare le sue ricche e inesauribili materie prime (petrolio e plutonio, preziosi microelementi e terre rare).

Il film Io capitano di Garrone ha preso il Leone d’Argento per la regia ed il premio Mastroianni per il miglior attore emergente a Seydou Sarr a Venezia, perché diretto e recitato in maniera eccellente.

Ma avrebbe potuto anche essere premiato per una sceneggiatura su cui lo stesso regista (che ha avuto l’idea) ha dovuto lavorare con Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini, Andrea Tagliaferri sulle storie di migrazione vissute da Koussa Adama Mamadou, Armand Zohin, Amara Fofana, Brham Tareke e Siaka Doumbia.

Una sceneggiatura vivace, con eventi vissuti a tappe, a volte terribili a volte commoventi, sempre partecipati, evitando il documentario e la retorica vittimistica. Mai neorealismo o dramma strappalacrime. Anzi pervasa da un forte rigore di cronaca vissuta (anche la lingua è quella senegalese, dialetto Wolof) mescolata ad una immanente poetica metafisica, il tutto elevato, da un concreto contingente ad un significato universale.

La storia è semplice. Due cugini senegalesi di appena 16 anni Seydou (Seydou Sarr, che nella realtà di anni ne 21) e Moussa (Moustapha Fall) senza dire nulla ai genitori, lasciano Dakar per raggiungere l’Europa, traversando in camion il Mali ed il Niger, il Sahara in parte a piedi, passando per i centri di detenzione libici e superando i pericoli della traversata del Mediterraneo.

Un percorso, realmente on the road (ma anche senza road), a tappe, incontrando ogni tipo di persone e situazioni pericolose da poter perdere soldi e vita ogni momento, senza poter far nulla. “Quello che vedete e quello che sentite (in televisione e sui social – dice un connazionale che è emigrato e riuscito a ritornare – non è la realtà”.

I due ragazzi come tutti i ragazzi del mondo sono giovani ancora senza precise idee, ma vogliono conoscere un altro continente in cui forse diventare famosi. Forse è il caso, ove si voglia dire che sono solo incoscienti, di capire se è giusto che non si possa dare anche ad essi l’opportunità di cambiare, come succede ad esempio ai giovani europei.

Ma il film non è nemmeno una storia di formazione (come ha detto Garrone), ma una storia di come prendersi le proprie responsabilità (“Io sono il capitano” dirà orgogliosamente il giovane Seydou dopo aver condotto salvi tutti i profughi in Sicilia), non è un film di denuncia politica nel senso comune odierno di frase per lo più ipocrita, ma va preso come un racconto di avventura, di coraggio, di estrema vicinanza alla morte ma pieno di solidarietà che commuove.

Dove indifferenza ed aiuto reciproco si alternano come il bene ed il male nella vita di tutti.

Con il suo urlo liberatorio con cui si chiude il film – “Io sono il capitano”, appunto – “un ragazzo senza esperienza, che non sa nuotare e che si è preso sulle spalle la vita di tanti migranti” (con donne e bambini), Garrone ha colto la più grande verità e valore umano, quello della “innocenza, solidarietà e senso di responsabilità” che sono, malgrado tutte le brutte esperienze, ancora nel cuore di questo ragazzo.

Storia vera di Koussa Adama Mamadou, che oggi aiuta i suoi connazionali, in– come dice egli stesso– un:

Movimento di immigrati e migranti di Caserta (prima si salvano le persone e poi se ne discute!)”.

E così ha sempre fatto.

Coloratissime le ambientazioni filmate dal Direttore della fotografia Paolo Carnera, che riesce a colorare anche le emozioni, alternando gli orrori delle tragedie incombenti alla leggerezza delle sagre popolari, alle scene oniriche delle visioni da favola, alle atmosfere di pericolo imminente.

Tanto che quando sembra che tutto sia perduto si verifica invece quel prodigioso miracolo salvifico, vuoi per un caso fortuito, vuoi per la sensibilità e l’amore di un essere umano (il muratore interpretato da Issaka Sawadogo che libera il protagonista Seydou dalla detenzione portandolo a costruire una villa), che può rappresentare un angelo ultraterreno di salvezza.

Struggenti le musiche africane, con le voci canore anche dei due protagonisti, parte integrante della originale colonna sonora di Andrea Farri.

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Pino Moroni

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