Io capitano di Matteo Garrone (ormai noto, per i film precedenti Gomorra, Reality, Il racconto dei racconti, Dogman, Pinocchio) è un film ad ampio respiro socio-culturale internazionale.
Finalmente un film italiano che esce da quegli schemi ormai stratificati su storie o storiacce di medio borghesi, più o meno benestanti ed educati, pieni di banali situazioni e soprattutto di patetici vizi nostrani.
In Africa invece, oltre le guerre, le endemiche sopraffazioni dei poteri più forti (colpi di Stato e Dittature), la persistente corruzione generale, le arretratezze di vita e di cultura e l’estrema povertà, frutto di quel secolare sfruttamento territoriale e fisico e ora dello spietato neocolonialismo economico, il problema più pressante e, apparentemente senza soluzioni, è diventato quello degli incalcolabili ed incontrollabili flussi migratori verso il continente europeo (sic!).
Vogliamo invece parlare della instabilità di quel continente, voluta dai paesi che hanno ancora bisogno di sfruttare le sue ricche e inesauribili materie prime (petrolio e plutonio, preziosi microelementi e terre rare).
Ma avrebbe potuto anche essere premiato per una sceneggiatura su cui lo stesso regista (che ha avuto l’idea) ha dovuto lavorare con Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini, Andrea Tagliaferri sulle storie di migrazione vissute da Koussa Adama Mamadou, Armand Zohin, Amara Fofana, Brham Tareke e Siaka Doumbia.
La storia è semplice. Due cugini senegalesi di appena 16 anni Seydou (Seydou Sarr, che nella realtà di anni ne 21) e Moussa (Moustapha Fall) senza dire nulla ai genitori, lasciano Dakar per raggiungere l’Europa, traversando in camion il Mali ed il Niger, il Sahara in parte a piedi, passando per i centri di detenzione libici e superando i pericoli della traversata del Mediterraneo.
I due ragazzi come tutti i ragazzi del mondo sono giovani ancora senza precise idee, ma vogliono conoscere un altro continente in cui forse diventare famosi. Forse è il caso, ove si voglia dire che sono solo incoscienti, di capire se è giusto che non si possa dare anche ad essi l’opportunità di cambiare, come succede ad esempio ai giovani europei.
Ma il film non è nemmeno una storia di formazione (come ha detto Garrone), ma una storia di come prendersi le proprie responsabilità (“Io sono il capitano” dirà orgogliosamente il giovane Seydou dopo aver condotto salvi tutti i profughi in Sicilia), non è un film di denuncia politica nel senso comune odierno di frase per lo più ipocrita, ma va preso come un racconto di avventura, di coraggio, di estrema vicinanza alla morte ma pieno di solidarietà che commuove.
Con il suo urlo liberatorio con cui si chiude il film – “Io sono il capitano”, appunto – “un ragazzo senza esperienza, che non sa nuotare e che si è preso sulle spalle la vita di tanti migranti” (con donne e bambini), Garrone ha colto la più grande verità e valore umano, quello della “innocenza, solidarietà e senso di responsabilità” che sono, malgrado tutte le brutte esperienze, ancora nel cuore di questo ragazzo.
E così ha sempre fatto.
Coloratissime le ambientazioni filmate dal Direttore della fotografia Paolo Carnera, che riesce a colorare anche le emozioni, alternando gli orrori delle tragedie incombenti alla leggerezza delle sagre popolari, alle scene oniriche delle visioni da favola, alle atmosfere di pericolo imminente.
Tanto che quando sembra che tutto sia perduto si verifica invece quel prodigioso miracolo salvifico, vuoi per un caso fortuito, vuoi per la sensibilità e l’amore di un essere umano (il muratore interpretato da Issaka Sawadogo che libera il protagonista Seydou dalla detenzione portandolo a costruire una villa), che può rappresentare un angelo ultraterreno di salvezza.
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