OLIVIA RODRIGO, “Guts” (Geffen, 2023)

La difficoltà nei passaggi generazionali del rock è che, inevitabilmente, i nuovi artisti che si affacciano all’altrettanto nuovo (e giovane) pubblico, devono in qualche maniera, più o meno detonante, contrastare quello che è venuto prima. Ogni generazione ha la missione di trovare il proprio ruolo, no? Ma, più o meno fino a metà anni Dieci, a latere di una opposizione a una qualche tendenza ormai in voga da qualche anno c’era anche – solitamente e con l’eccezione forse del solo punk – una reprise di qualcos’altro magari avvenuto prima: la storia del rock in quel senso era salva, era una linea se non retta ma almeno ininterrotta di corsi e ricorsi, di citazioni, di evoluzioni magari non eclatanti ma, insomma, si parlava più o meno la stessa lingua tra appassionati, qualsiasi età questi avessero. E invece era parso che a metà dello scorso decennio, o forse anche un po’ prima, qualcosa si fosse rotto perché gli adolescenti (e di conseguenza anche i loro artisti di riferimento) si ponevano sempre più fuori dal rock inteso come senso del rock, diciamo spostandosi in un ambito di “estetica smaccatamente pop”. Posto che le categorie di rock e pop, nella loro difficoltà di definizione e omnicomprensività, sono sempre state delle porte girevoli, cerco di precisare meglio quello che intendo per “estetica smaccatamente pop”: (*) i suoni si pulivano e asciugavano all’inverosimile, (*) si fondeva in un tutt’uno la rappresentazione musicale con quella di spettacolo e danza (con i musicisti e soprattutto musiciste che erano anche, forse anche più, ballerini o coreografi di loro stessi), (*) l’energia della musica, intesa come impatto e veemenza, diventava meno importante, forse in contemporanea con la miniaturizzazione dei dispositivi per ascoltare la musica, per spostarsi su ambito più psichico. E si potrebbe continuare. Ma non è questa la sede di un’analisi così ampia (e difficilissima), lo spunto per questo ragionamento iniziale è che “Guts” di Olivia Rodrigo è uno dei primi esempi, dopo quella frattura, di rimettere in linea quella storia del rock/pop, di unire generazioni diverse. Non una cosuccia da niente.

“Guts” parla apertamente ai teenager di oggi per la sua freschezza e per la volontà di avere una band formata da componenti di sesso femminile o non binario (“Questo è ciò che avrei voluto vedere quando ero una ragazza che scorreva YouTube a 14 anni”, ha detto la Rodrigo al NYTimes), utilizza un linguaggio estatico in brani come “making the bed” o comunque delicatamente pop nelle ballate al pianoforte (“vampire”, “logical”, “teenage dream”), ma si rivolge anche, e soprattutto, a chi ha i gusti che spaziano da qualche parte nei quasi 70 anni di vita di quel vecchiettino che è il rock: “all american-bitch” strizza l’occhio ai fans di Avril Lavigne, “bad idea right?” e “pretty isn’t pretty” (i suoni del cui incipit richiamano in maniera forte Tom Petty) a chi ama la new-wave anni ’80, “ballad of homeschooled girl” a chi apprezza le asprezze garage (sotto una melodia comunque emo), “get him back!” agli indefessi del flow hippoparo. C’è dunque sicuramente una ottima produzione commerciale ad opera di Dan Nigro (assieme a Julia Michaels e Amy Allen) ma l’impressione più generale è che Olivia Rodrigo voglia risfoderare emozioni un po’ perdute in una musica molto radiofonica ma altrettanto sincera. In questo senso deve aver pesato il consiglio che Jack White le ha dato davanti a un’insalata e patatine: “Il tuo unico lavoro è scrivere musica che vorresti sentire alla radio”, pausa. “Voglio dire, scrivere canzoni che vorresti sentire alla radio è in effetti molto difficile”.

Al bando le manifestazioni solo estetiche, qui – al netto di certa inevitabile confidenzialità – l’energia conta eccome (“Ultimamente la mia band preferita sono i Rage Against The Machine”, ha dichiarato) e c’è anche molta fisicità: siamo usciti dalla pandemia, Olivia Rodrigo pare dirci di preferire vivere non in una bolla del bello e perfetto ma visto in lontananza, o meglio nella vicinanza degli schermi dei nostri device, bensì in un mondo forse più imperfetto ma più vivido o, meglio, più reale. Che preferisce vivere all’aperto, non al chiuso. Di fianco a delle persone, non solo in connessione con esse.

Se questa è la sensazione generale, è già tanta roba. Per cui si può anche perdonare quelle che parrebbero essere “furbate di produzione da major nell’epoca dello streaming” come quella di iniziare le canzoni con giri di accordi di pezzi già famosi, solo pochi secondi, in modo da far abituare l’orecchio che poi è predisposto a continuare l’ascolto (accade in “vampire” che usa gli stessi accordi di “Creep” dei Radiohead e in “logical” in cui i primi passaggi di melodia rimandano a The Boxer di Simon and Garfunkel, stranamente come hanno fatto le Boygenius in “Cool About It”). Peccati veniali particolari, ci concentriamo sul generale. E questo è che Olivia Rodrigo ha fatto un album che rimarrà, nel bene e nel male, un passaggio ineludibile di quell’eterno braccio di ferro tra rock e pop.

80/100

(Paolo Bardelli)