“The Ballad of Darren” dei Blur, il primo ascolto

Il “primo ascolto” è mettere nero su bianco le primissime sensazioni di quando, si diceva una volta, si mette la puntina sul piatto “for the very first time”.

1. “The Ballad”

Sorprende un po’ quella batteria giocattolo che rimanda subito alla strumentazione usata da Damon Albarn per il suo ultimo album solista (“The Nearer The Mountain, More Pure The Stream Flows”): la canzone parte quindi come un proseguimento di quelle atmosfere ma presto diventa più composita. Arrivano archi e cori per una grande spazialità: il clima intimo della “ballad al pianoforte” iniziale si trasforma in qualcosa più grandioso. A me ha ricordato un po’ Under the Westway, che è una canzone meravigliosa dunque anche il mio (primo) giudizio su questa “The Ballad” è positivo, perché il pezzo sembra ispirato. E tutto parte subito con una mancanza: “

just looked into my life
And all I saw was that you’re not coming back

(ho appena guardato nella mia vita
E tutto ciò che ho visto è stato che non tornerai indietro)

2. “St Charles Square”

Ecco qui andiamo dritti al Blur-sound, o meglio è Coxon che direziona subito il pezzo con la sua chitarra sghemba e James tiene la barra dritta con un basso particolarmente distorto. Albarn confabula che ha fatto una cazzata e ora deve fare i conti con la solitudine.

I fucked upLoneliness, I’ve been here before

3. “Barbaric”

Non so a voi, ma qui un brivido si irradia sulla schiena e si inumidiscono gli occhi: non so perché, ma questa canzone agrodolce mi ha fatto commuovere, con quella melodia semplice (scusate la bestemmia… non è un po’ Baustelle?). È una sensazione di aver perso qualcosa che non tornerà ma esserne anche, allo stesso tempo, consapevole e in pace con se stessi di non poter far nulla per cambiare le cose.

That we had lost the feeling that we thought we’d never lose
Now where are we going?
At what cost, the feeling that we thought we’d never lose
It is barbaric
, darling

Colpisce la perfetta valutazione di cosa sia “perdere quel sentimento che pensavamo non avremmo mai perso”: è una barbarie. Non dovrebbe andare così, e invece lo fa. Cosa possiamo fare per evitarlo? Niente. Ma cantandolo i Blur ce lo rendono un po’ più leggero.

4. “Russian Strings”

Anche qui siamo dalle parti dell’Albarn-solista: le progressioni di accordi sono suggestive, si passa senza colpo ferire tra accordi in maggiore a quelli in minore fino ad arrivare a quell’assolo finale di Coxon, con quelle notine timide e tremolanti che rappresentano la semplicità della fine.

There’s nothing in the end, only dust
So turn the music up

I Blur ci dicono che non c’è niente alla fine del nostro percorso di vita, solo la polvere, perciò – cazzo – alzate il volume della musica! .

5. “The Everglades (For Leonard)”

Se fino a questo punto il livello dei brani è parso molto alto, con “The Everglades (For Leonard)” si scende un minimo, ma non di troppo. La canzone è pur sempre una ballad intrisa di chitarra acustica ed archi e si chiude brevemente (dura meno di tre minuti) con un feedback della chitarra di Coxon alla Jonny Greenwood style direttamente da “Ok Computer”.

C’è sempre molto rimpianto (“Many paths I wish I’d taken”) e una sensazione di essere fuori tempo o comunque in ritardo (“And furthermore I think it’s just too late”): arriveranno giorni più calmi (“And calmer days will arrive”), ma forse è troppo tardi anche per quelli.

6. “The Narcissist”

Il singolo già ascoltato “The Narcissist” è una canzone sollevata, limpida, lineare di chi si è riappacificato con se stesso. È una preghiera laica, un’invocazione a guardarsi negli occhi e risplendere l’uno per l’altro:

Oh glorious world
Oh potent waves valleys gone wild
Connect us to love
And keep us peaceful for a while

Uno stile diverso per il Blur che di solito sono sempre stati più schizofrenici: basta essere nervosi, troviamo invece la nostra trascendenza.

7. “Goodbye Albert”

I Blur si avventurano nel synth-pop: un lieve arpeggiatore fa da sfondo a una ballad (sì, in effetti è un album fatto di “ballate” come proprio il titolo evoca) elegante e molto anni Ottanta, ma anche vicina ad alcune sensazione di The Waeve (il progetto ultimo di Coxon con la compagna Rose Elinor Dougall).

Proprio una bella canzone, la cui pulizia pop è sporcata dall’inconfondibile chitarra deviata di Coxon.

8. “Far Away Island”

Come fa Albarn a scrivere pezzi così belli? Qui pare che rimembri la “sua” Islanda, dove ha comprato casa e si rifugia appena può, e pertanto l’invocazione si fa piuttosto lirica:

Far away island, I miss you
I know you think I must be lost now, but I’m not anymore

È una specie di valzerino (“What you doing tonight? / Are you dancing?”) per ballare insieme a quel desiderio di essere in un luogo amato in cui non si è.

9. “Avalon”

“Avalon” ha un incedere languido da singolone anni Settanta, ampiamente sinfonico, quasi un tributo ad Elton John da una visuale pop colorata di soul. Una canzone che pare invero un po’ più involuta delle altre, o meglio un po’ troppo barocca, ma è solo – appunto – la prima sensazione del primo ascolto.

10. “The Heights”

“The Ballad of Darren” termina tra il confidenziale e il pomposo: all’iniziale dialogo intimo tra due chitarre rispondono i continui inserti di una batteria un po’ invadente e un feedback finale che azzera tutto, come una risacca che pulisce la spiaggia dalle orme.

Orme che sono l’ulteriore segno lasciato dai Blur sulla Terra: in punta di piedi, ma forse proprio per questo un graffito che rimarrà.

(Paolo Bardelli)