CHET BAKER, “At Capolinea” (Red Records, 2023)

Si fa fatica ad immaginarlo, ma c’è stato un tempo in cui la zona Navigli di Milano era esattamente il contrario di quella che vediamo noi oggi; una paesaggio rurale, abitato principalmente dal proletariato cittadino, dove d’estate combattevi una lotta impari con le zanzare e d’inverno rischiavi seriamente di perderti nella nebbia. Ed è proprio qui,  in via Ludovico il Moro numero 119, che sorgeva uno dei locali che hanno fatto la storia del jazz d’Italia, il Capolinea.

Franco D’Andrea al Capolinea
Giorgio Vanni, proprietario del Capolinea, con Dizzy Gillespie

Si perché i protagonisti qui sono due: uno è Chet Baker, il malinconicamente iconico trombettista dell’Oklahoma; l’altro è proprio il “Capolinea”, zattera di cultura baciata da nugoli di insetti e dal respiro sulfureo di asfalto e acqua del Naviglio. Fondato a fine anni ’60 e partito, diciamo cosi, in sordina, il locale divenne improvvisamente uno dei ritrovi cult non solo della scena musicale milanese, ma di tutta la maggiore scena jazzistica italiana; e quando poi tra le sue tavolate cominciarono a farsi vedere anche tra i più importanti jazzmen americani, beh, ci si accorse che la questione andava orgogliosamente complicandosi. Un successo insperato, che si fondava su un’idea molto semplice: creare un locale dal sapore casalingo per la musica jazz, intercettando i musicisti che erano nella città meneghina per un concerto, magari al Lirico, per dirottarli poi lì per un’altra suonata senza formalismi, in compagnia di chi c’era. L’atmosfera aveva un che di comico: entravi ed era tutta una convivialità, e ti potevi trovare Lionel Hampton o Elvin Jones a mangiare degli spaghetti in cucina, sul retro; Dizzy Gillespie a provarci inconsapevolmente con la moglie del titolare; Massimo Urbani o Franco D’Andrea ad incendiare il palco a suon di note; e ancora, Fabrizio De André intento a bersi una bottiglia di vino. Una vera casa per gli artisti, insomma.

Detto del luogo, parliamo dell’artista: Chet Baker ha sempre avuto un debole per l’Italia, e con lei ha vissuto episodi degni della più folle storia d’amore; dalle incisioni con nostri illustrissimi Maestri come Morricone e Umiliani, alla detenzione per uso di sostanze nel carcere di Lucca, dove suonava tutto il giorno rivolto ad una finestra sulla strada, arrivando poi ad una serie di registrazioni – spesso di pregio, come quelle per la Philology, casa discografica con sede a Recanati – con etichette e con musicisti nostrani nella parte finale della sua carriera

Anche Baker era spesso ospite del Capolinea – un giorno suonò per ore nella camera  dove viveva il proprietario Giorgio Vanni, posta al piano di sopra del locale, per condividere un momento delicato con lui; ma sulla generosità effettiva del trombettista è lecito avanzare qualche dubbio – ; in questa serata del 1983, Chet arriva ai Navigli con il volto solcato dalla vita e il ritmo paziente di chi ha visto l’abisso e ne è attratto. Con lui non sapevi mai cosa aspettarti, dato che poteva suonare benissimo o non riuscire neanche a stare in piedi: ed infatti quella sera Baker registrò uno dei suoi migliori dischi della carriera, intitolato semplicemente “At Capolinea”. Il trombettista qui è al vertice del suo lirismo, con quel suono fragilmente mascolino che arriva dritto dal cuore e il fraseggio di una semplicità senza eguali. Viene accompagnato da una band straordinaria: Daniele Stilo – che quasi ruba la scena allo stesso Baker: un pozzo senza fondo di inventiva strumentale dalla voce sognante e funambolica – al flauto, Diane Vavra al sax soprano, Michel Grailler al pianoforte, Riccardo Del Fra al contrabbasso e Leo Mitchell alla batteria.

Chet nel locale milanese

Sulla musica che si è sentita quella sera c’è poco da dire: “At Capolinea” è una delle incisioni più belle di sempre della musica improvvisata italiana – qui rimasterizzata e ripubblicata con cura e passione – , oltre che una fotografia unica e preziosa di un’epoca imperdibile del nostro jazz.  Il gruppo plana sul pubblico ottobrino con sicura delicatezza, con un set in gran parte dedicato a temi di autori nostrani; apre le danze con una leggendaria versione di “Estate” di Bruno Martino, che si distende per undici minuti di languida indolenza; e lascia lì con nonchalance una serie di brani dai forti timbri mediterranei come il mid tempo “Francamente” – di Stilo – , pregna di battiti salmastri, arie di scirocco e malinconia cotta dal sole, o “Finestra Sul Mare” – di Del Fra – , passo strascicato in tre quarti contorniato di ombre e luci sull’acqua. Ma a non citare qualcosa si fa davvero peccato: è una di quelle serate dove si ringrazia il fatto che qualcuno abbia avuto l’idea di registrare.

Non sarà l’ultima serata per il Capolinea, e nemmeno per Baker. Il locale chiuderà le porte nel 1999, lasciando orfana la città meneghina; il trombettista di Yale, invece, chiuderà la sua vita pochi anni dopo questo concerto, volando fuori da una finestra aperta su una notturna strada olandese. Ritrovato, non fu riconosciuto: lo scambiarono per un malvivente o un drogato. Non li biasimo! Per riconoscerlo senza alcun dubbio avrebbero dovuto mettergli sulle labbra una tromba e farlo soffiare; sarebbe bastata una nota, ne sono sicuro! Ma da quella notte del 1988, Chet Baker non aveva più un respiro da dare al mondo.

Maledizione, Chet! Arrivederci!  

79/100

(Edoardo Maggiolo)