Oltre i Waeve: l’inquieta leggerezza di Rose Elinor Dougall

Rose Elinor Dougall nel 2016 (Photo by James D Kelly)

#tbt

Ci sono dischi che portano in dono suggestioni, collegamenti, necessità di approfondimento, e uno di questi è il debutto de The Waeve: l’album in sé necessita attenzione, stupendo ma non semplice, senonché la liason più forte è con la precedente carriera artistica di Rose Elinor Dougall, forse sottovalutata. S’impone di tornarci su.

La Dougall, classe 1986, nasce – come si suol dire in questi casi – in una famiglia artistica: suo padre, Alastair Dougall, era un cantautore della scena di Brighton e suo fratello Tom Dougall è un ottimo chitarrista e cantante, che conosciamo bene essendo il leader dei Toy.

un brano di Alastair Dougall, il padre di Rose Elinor Dougall

C’è vita dopo le Pipettes

Quando nel 2008 lascia le Pipettes, dove aveva anche lei contribuito alla scrittura di brani famosi come i singoli “Judy” e “Dirty Mind”, si unisce proprio al fratello Tom (all’interno della support band The Distractions) per perseguire il proprio progetto musicale. Il primo singolo, e siamo proprio nel dicembre 2008, è “Another Version of Pop Song”, una pop song solare fatta con battiti di mani e una lieve psichedelia corroborata da un insolente tin whistle che ondeggia mentre la canzone si mantiene su un accordo fisso, tipica soluzione psych. Ma sono i due singoli editi nel 2009 che fanno capire che Rose è davvero brava: l’intro di “Start/Stop/Synchro” porta fuori strada perché quella spinetta ricorda immediatamente le Pipettes ma poco dopo l’entrata del basso la canzone sferza via con un tempo veloce che ripropone il brio di alcune cose dei Radiohead quando non erano ancora davvero i Radiohead (sì, sto parlando di “Pablo Honey” e di canzoni come “Blow Out” ma con la soavità di “I Can’t”), sensazioni che sono amplificate nella esplosiva “Fallen Over”, una goduria di dream pop che schiaffeggia il volto come lo spostamento d’aria creato dal passaggio di un treno ultraveloce. Canzone eccelsa, eccellente, ancor oggi freschissima.

Senza dubbi: “Without Why” (2010)

Ma tutto il debutto della Dougall, “Without Why” (2010), trasuda di immediatezza e voglia di suonare: oltre ai tre singoli già visti ci sono tenue distorsioni che ricordano un po’ gli Smiths (“Carry On”), ballate suggestive con un malinconico organetto (è proprio lo strumento con cui si approccia Rose) come spina dorsale (“Third Attempt”), ma anche brani che sono Waeve-style ante litteram: come non definire così un pezzo stratificato come “Watching”? Immaginatelo maggiormente orchestrale e con più incroci e avrete quelli che sono oggi The Waeve. Quello che fa di “Without Why” un album riuscito lo si vede guardando la band di Rose suonare “Start/Stop/Synchro” live: c’è una vera band dietro che si diverte, e non è solo l’unione di Rose e del fratello Tom. C’è ad esempio anche l’ottima bassista Georgia che qualche anno dopo formerà i JUCE spostandosi su un left-field pop/R&B non banale (da ascoltarsi il singolo di debutto “Call You Out”, e siamo nel 2014).

“Without Why” attira le attenzioni: Pitchfork sottolinea che emergono “come picchi evidenti” soprattutto i singoli e che “le canzoni più lente sono le più deboli”, ma conclude dicendo che “nel complesso, Without Why è un debutto insolitamente sicuro e abilmente realizzato” e gli dà un buon 7.6, mentre qui in Italia viene abbastanza stroncato. SA dice che “musicalmente non dice niente di nuovo” e Ondarock sottolinea che la Dougall “sembra affascinata dalle nuove suggestioni musicali, ma incapace di reggere per tutto l’album il suo nuovo profilo artistico”.

È un periodo pieno per Rose e sempre nel 2010 suona le tastiere nella band The Business Intl. accreditata nell’album “Record Collection” dell’influente produttore Mark Ronson, cantando tre brani e facendo una comparsata vestita di rosso su una bici nel video di “The Bike Song”, mentre nel 2012 continua il suo discorso solista nell’EP di tre brani (“The Distractions EP”) con un paio di pezzi al fulmicotone (“The Night” e “I’ve Always Known”). Evitabile invece il singolo del 2013, “Future Vanishes”, che non ha una identità ben definita anche se ricorda un po’ le cose coeve dei Chairlift.

Si va nello spazio: “Stellular” (2017)

Mentre il fratello sforna con i Toy dei signori album culminati, a detta del sottoscritto, nel riuscitissimo quarto album “Clear Shot” (2016), Rose concentra i suoi sforzi e pubblica il suo album più a fuoco, inquieto e leggero allo stesso tempo, “Stellular” (2017), 47 minuti della migliore espressività di Rose. I pezzi sono evocativi (“Poison Ivy”), coinvolgenti (l’iniziale “Color Of Water”, con ariosi e liberi arpeggi di chitarra), spaziosi (“Space To Be”). L’album si fonda principalmente sulla chitarra elettrica e la Dougall pare liberata: si concentra sulla voce lasciando un po’ da parte le tastiere e termina la collaborazione con il fratello Tom (qui suona la chitarra Anthony Rossomando, già nel Dirty Pretty Things prima e con Pete Doherty poi). “Stellular” guarda la terra dalla termosfera e la visione è fascinosa.

Il Guardian dà a “Stellular” 3 stelle su 5 definendola “gotica” e “artpop”, Loud And Quiet gli dà 7/10 e sottolinea che trattasi di “elettro-pop raffinato, per lo più dal ritmo incalzante e con un’atmosfera sofisticata e artistica”, ma c’è anche la critica che (finalmente!) non lesina complimenti: sia Under The Radar (“una sensibilità street anni ’80 sotto un elegante abbigliamento da mercatino”) che The Line Of Best Fit (“un tesoro inaspettato”) riconoscono il voto altissimo di 8,5/10.

Il cammino verso la maturità: “A New Illusion” (2019)

Nel 2019 si cambia ancora: “A New Illusion” non poggia più sull’architrave “chitarra elettrica” bensì soprattutto su quella del pianoforte nell’ambito di canzoni che si fanno via via più rarefatte e spezzate. Il cambio fa guadagnare in profondità ma fa perdere in immediatezza: alcuni brani – per la prima volta a mio parere – girano un po’ su loro stessi senza grandi vie d’uscita (la titletrack), ma c’è sempre lo zampino da fuoriclasse (la straniante “Take What You Can Get”, con il compendio di un organo acido diabolico). La questione è semplice: dopo due album così impressionanti (soprattutto il secondo), questa terza prova potrebbe apparire come un rallentamento, ma tutto ha un senso se pensiamo poi all’evoluzione del linguaggio della Dougall nel progetto Waeve. La critica più attenta comunque continua a seguirla e a tributarle buone recensioni (The Quietus, Uncut e il “solito” Under The Radar) ma questo giro Pitchfork non la recensisce: a volte l’indifferenza è peggio di un brutto voto.

Come a voler sottolineare che la Dougall è capace di ben altro, la cantautrice inglese butta subito fuori, sempre nel 2019 sul finir d’anno, un paio di singoli invece molto ben riusciti: sia “How Long”, ballata toccante e volteggiante, che “Natural State”, mid-tempo dream-pop, non possiedono le atmosfere meditabonde di “A New Illusion” e fanno capire che Rose Elinor è una compositrice instancabile e, soprattutto, profonda.

Una profondità che è l’anticamera di quello che poi, con maggiore grandeur e tormento, la Dougall ha scandagliato nel progetto The Waeve con il compagno Graham Coxon, che è in effetti un’altra storia. Però, a dirla tutta, noi speriamo che la voglia espressiva della Rose Elinor Dougall solista non si chiuda all’interno delle “mura di casa” e continui anche oltre i Waeve: il suo talento non è fatto per essere addomesticato quanto piuttosto per essere moltiplicato.

(Paolo Bardelli)