Diego Alligatore tratteggia l’underground italico nella pandemia

“Giovani, musicanti e disoccupati. L’underground italico nel 2020” è un libro che racconta l’anno della pandemia dal punto di vista dei musicisti italiani, proprio attraverso le loro voci in diretta. Panorama davvero triste, o meglio ancor più triste, perché ci ricordiamo bene come tutti i concerti si siano fermati in quel periodo e in che condizioni di scoramento si trovavano tutti coloro facessero musica. Non che oggi si stia molto meglio… Però era importante fare una fotografia del momento, per guardare alle prospettive. Abbiamo quindi pensato di fare quattro chiacchiere con Diego Alligatore, blogger e scrittore che così si descrive: “metà veneto, metà altoatesino, è nato nei primi anni Settanta, il giorno del compleanno di Jack Kerouac: collabora da quasi vent’anni con il sito della nota agenda Smemoranda, scrivendo di giovane musica italiana e fumetti. Sui suoi blog – Il Blog dell’Alligatore e L’orto di Elle e Alli – ha condotto centinaia di interviste a giovani gruppi dell’underground italico, e continua a farlo”.

Caro Diego, tu sei un blogger della prima ora e continui a scrivere sul web, sul tuo blog e su Smemoranda oltre ad altri progetti, prima di parlare del tuo libro “Giovani, musicanti e disoccupati”, volevo sapere come vedi lo stato della scrittura musicale sul web: come è cambiata secondo te? E’ migliorata o peggiorata da quando è apparsa in Rete?
Domanda difficile, anche se banalmente potrei dirti che ogni epoca ha i suoi mezzi, e in ogni sua epoca ci sono gli Hemingway e gli scribacchini. Mi pare si sia integrata perfettamente tra video, scrittura, voce. Non c’è più il Mucchio Selvaggio, sul quale molti di noi si sono formati, ma c’è molta professionalità anche in Rete. Quindi il mio parere sulla scrittura musicale ai tempi di Internet è sostanzialmente buono. Vedo molti giovani interessanti.

Veniamo al libro: quale è la testimonianza che più ti ha colpito tra quelle ospitate?
Te le vorrei citare tutte, non per evitare di scontentare qualcuno, ma perché sono tutte particolari, diverse, a loro modo originali. Da chi scrive due righe tipo Honeybird, che mi racconta di essersi esercitata con il Charango, trovando online molti suonatori di questo magico strumento a corda sudamericano, a Non Giovanni, che fa due riflessioni importanti. Una, direi politica, con la quale chiede ai governanti di istituire un reddito minimo universale per gli artisti, in modo da lasciarli liberi di creare. Una forma di mecenatismo di stato, una richiesta provocatoria, ma che faccio mia, ora che pure il reddito di cittadinanza è stato ridotto miseramente dall’attuale governo. La seconda di tipo sociologico, su quanto ha pesato la pandemia nei rapporti tra le persone “i rapporti già in bilico sono definitivamente crollati, gli affetti importanti sono rafforzati.” Mi è venuto in mente, dolorosamente, quando si è rotto il rapporto con la mia compagna nel 2021, anche se non posso dare tutta la colpa al virus. Ma qui mi fermo, per evitare di entrare nella sfera privata.

Dal libro esce un panorama indipendente italiano frammentato e, se posso dire, anche “spaventato”: non poteva forse essere altrimenti visto che le testimonianze venivano registrare in piena epoca covid 2020. Che futuro ha la scena italiana indipendente in vista di un “new normal” di ripresa dei live?
Un futuro non roseo, perché la situazione era degenerata già nel decennio prima, con il prepotente affacciarsi dei giganti del web nella gestione della musica. Spotify, YouTube e via discorrendo. La musica che si può ascoltare gratis dal cellulare, gli artisti costretti a fare concerti su concerti per rientrare nelle spere, il disco come un gadget, la richiesta di singoli a getto continuo. Dovremmo pagarli di più, questi musicanti, giovani o meno, dovremmo dare importanza al prodotto disco, sotto forma liquida o solida, e magari tassare bene le grandi compagnie del web, restituendo a chi crea arte il giusto. Come in ogni settore produttivo, del resto. Si parla da anni di riforma fiscale: la prima da fare sarebbe tassare bene i giganti del web, che in questi ultimi anni hanno guadagnato troppo.

L’autopromozione sui social, specialmente su Instagram, che è stato il mezzo tuo più congeniale per comunicare con gli artisti ospitati nel libro, è ancora quella più attuale oppure vale la pena forse comunicare di meno? Penso ad esempio a un artista come Iosonouncane che non si veicola sui social ma appare molto più di altri…
Nonostante le critiche che faccio al web, io amo Internet, sono un drogato di Instagram, infatti come dici bene l’ho usato molto per intervistare, contattare e scrutare i miei amici musicanti in quel periodo difficile, dove era diventato l’unico sistema per farsi vedere. Credo che ognuno deve trovare la sua strada, in base alle sue caratteristiche e idee e/o capacità. Chi ama stare nel web lo faccia, a patto ovviamente di veicolare contenuti validi. Ovvio che un artista indipendente fatica a seguire tutto da solo, rispetto a un big che ha una struttura dietro, come in politica o in qualsiasi altro campo … Iosonouncane è più unico che raro. Però se lui sta bene così, continui così.

Il crowfunding, veicolato dall’intervista a Severini in chiusura del libro, è un modo privilegiato per gli artisti di sostenersi o intravedi altre forme o altre battaglie da combattere?
È una forma molto importante, e più l’artista ha un seguito, più riesce, ovviamente, a ricavare soldi per fare un disco come vuole lui. I Gang, che sono sessantenni, hanno un seguito enorme, dagli anni Ottanta in poi, inoltre Marino Severini, è un ottimo comunicatore, e ha saputo usare FB in maniera magnifica. Altri giovani musicanti, non hanno raccolto le cifre dei Gang (vorrei ricordare 1611 co-produttori, 72.945 euro raccolti, record per un crowfunding musicale italiano), ma si sono detti soddisfatti di questo strumento. Una cosa che ti rende indipendente davvero. Libero. E i Severini, che hanno sempre avuto problemi con i padroni del vapore, per le loro idee fuori dal coro, di dura opposizione allo stato esistente, lo sanno bene. Penso che, in una situazione di crisi generale, ci vorrebbe un new deal, che ricordo, ha avuto nella cooperazione, anche nell’arte, la sua migliore espressione. Quindi credo, sarebbe auspicabile, creare delle cooperative, delle unioni di artisti, dal basso. Dall’alto, cioè dalla politica ufficiale, vedo poco interesse. E mi dispiace, questa pandemia era l’occasione per rivedere molte cose a livello politico e sociale. Non è stato così, vedo ancora vecchi politici con vecchie idee. Nel mio libro si ricorda due volte quella brutta frase “con la cultura non si mangia, non è un panino”. Ecco, questo è l’esempio negativo da non seguire. L’arte e la cultura vera, non la fiera del cotechino, vanno sostenute dalle istituzioni.

(Paolo Bardelli)