[LineaNota] Carlo Boccadoro, “Bach e Prince. Vite parallele”

Sia benedetta la casa editrice quando decide di inaugurare una nuova e preziosa collana che ha nella dialettica degli opposti la sua ragione e il fine ultimo. Missione editoriale della Einaudi ben espressa dal titolo latino versus, abbreviato in vs. A ben guardare, o meglio leggere, si intuisce che questo è solo il pretesto per apparentare oggetti di studio altrimenti distanti: artisti e città dell’antichità, continenti e culture popolari, musicisti ma anche scrittori. Questi gli argomenti dei volumi già usciti nell’ultimo anno. Nel nostro caso è stata la lettura di Carlo Boccadoro, “Bach e Prince. Vite parallele”, a darci lo spunto per rileggere i destini individuali di due geni assoluti, nel senso pieno del termine. Dotati com’erano di un talento multiforme, eclettico, sospinto da un’esuberanza fin troppo sfacciata: Johann Sebastian Bach (1685-1750) e Prince Rogers Nelson, per tutti Prince (1958-2016).

Direttore d’orchestra e divulgatore eccellente, l’autore di questo affresco musicale ha percorso una strada insidiosissima; attento a non sbandare ad ogni curva ha narrato le vicende con un entusiasmo contagioso e riuscendo, infine, a offrire il bilancio di esperienze storiche, geografiche e culturali agli antipodi. Per non edulcorare la cifra stilistica di due giganti di quel calibro Boccadoro ha utilizzato l’arte dell’analogia , che da noi è poco frequentata per diverse ragioni (spesso tale pratica viene considerata eccessiva e strumentale, volendone dire una) ma che funziona benissimo nello studio della Storia laddove proprio accostare ragionevolmente episodi e biografie, senza tradirne le specificità, risulta assai efficace nell’analisi e nel raffronto di contesti che se presi singolarmente rimarrebbero certamente più oscuri.

Le due traiettorie artistiche dunque vengono decostruite in ogni singolo aspetto ed è nella successione dei capitoli, ciascuno breve e densissimo (dove a volte si fatica a trattenere tutte le informazioni), che le convergenze si dispiegano inaspettate. Dell’uno e dell’altro vi sono le ossessioni per la riuscita formale e la precisione del suono; il maniacale controllo del proprio lavoro; la straordinaria capacità di suonare tantissimi strumenti al punto da sperimentare, di ognuno, qualunque potenziale risvolto. Insomma c’è un ventaglio di “qualità” che appartengono con singolare somiglianza a entrambi.

Ma ci sono vicinanze, più legate ai contenuti della loro arte, che riguardano il rapporto con la morte, la religione, l’educazione: temi, questi, particolareggiati con intelligente misura dall’autore, e ancor più interessanti nel momento in cui epoche e società che ben poco hanno in comune producono frutti simili.

Da una parte le “piccole patrie” del musicista tedesco, Weimar, Kothen e Lipsia, dove le chiese ormai riformate da Lutero e tutta la galassia protestante scandivano la vita associata delle comunità cui Bach prendeva parte; dall’altra Minneapolis e gli Stati Uniti del giovane Prince, alle prese con il “razzismo strutturale” dei quartieri più poveri e l’irrisolto dramma delle disuguaglianze economiche. Curiosamente possiamo riscontrare come questi confini geografici, fin troppo ristretti, entro cui entrambi gli artisti hanno coltivato la propria creatività, siano stati importantissimi soprattutto per lo sviluppo di una ferrea etica lavorativa. La cosiddetta vita di provincia, indubbiamente meno portata alla dispersione, ha rappresentato, per le loro carriere, l’habitat naturale in cui esprimersi liberamente, al di fuori del conformismo e delle mondane tentazioni.

Per dare un’idea più precisa, Boccadoro puntualizza: “lungo i 65 anni della sua esistenza Bach ha lasciato un corpus molto ampio di lavori: la catalogazione fa risultare lo sbalorditivo numero di 1128 composizioni ufficialmente attribuitegli più 212 di dubbia paternità e non è affatto escluso che altri lavori, di cu conosciamo i libretti ma la cui musica è attualmente dispersa (ad esempio la Passione secondo Marco che sappiamo essere stata eseguita nel 1731), possano riapparire in futuro”. Il lavoro era quello di una catena di montaggio (dal lunedì al sabato si passava ore a provare per arrivare all’esecuzione domenicale) che trovava nell’idea luterana del lavoro la propria legittimazione e il motore dell’agire individuale.

Anche per Prince possiamo applicare le medesime categorie. Il suo riconoscibilissimo groove soul funk gli derivava da sessioni interminabili di lavoro in studio di registrazione; l’architettura complessiva presupponeva sempre un’operazione certosina di aggiunte, sottrazioni e innesti; le uniche interruzioni concesse servivano appena a dormire e fare rifiatare i pochi collaboratori di cui si circondava, ai quali veniva richiesta una partecipazione e un trasporto totali. Nel 1997 Prince rilascia un’intervista in cui è il primo ironizzare su questo aspetto: “In passato gli amici mi dicevano che ero uno stakanovista, un maniaco del lavoro, ma l’ho sempre preso come un complimento: John Coltrane si esercitava al sassofono dodici ore al giorno, vi immaginate che forza di volontà? Io voglio suonare quindici ore al giorno!”. Di fronte a un tale dispiego di impegno ed energie ci si potrebbe chiedere come sia possibile sopravviverne e dove risiedano le ragioni di tanto furore.

Di alcuni elementi possiamo dirne: le pressanti richieste del mercato musicale, che allora come oggi hanno sempre spinto per massimizzare; una fede cieca nel proprio lavoro, a costo di privarsi di tutto il resto; infine, il potenziamento attraverso il lavoro stesso dello spirito, permeato da uno spiccato senso della religiosità. Tutte motivazioni valide che concorsero al loro straordinario successo. Le stesse, per altro, che sul finire delle rispettive carriere causarono molte difficoltà e sortite non sempre brillanti. Proprio al prosciugarsi della creatività e alla coriacea chiusura dei due caratteri sono dedicate le pagine più intense del libro. Probabilmente qui, al crocevia di una patologia di cui molti sono affetti, risiede l’immortale fascino della musica e dei suoi interpreti: il narcisismo. Che, nella storia, è sempre una chiave e una condanna dell’umana esistenza. Di cui le “vite parallele” di Prince e Bach non sono che delle eccellenti testimonianze.

(Alberto Scuderi)