DOVES, “The Universal Want” (Heavenly Recordings, 2020)

Il motivo per cui i Doves non sono rimasti nella memoria collettiva resta tutt’ora un mistero difficile a svelarsi. Sicuramente avrà inciso la loro capacità di rimanere fuori dagli schemi, sempre fedeli a un’identità ben definita e a un desiderio di sperimentazione che non ha mai tenuto conto delle sonorità di tendenza degli Anni Zero. È però anche probabile che se il brit-pop dagli anni ‘90 in poi non fosse stato interamente monopolizzato dalla rivalità fra Blur e Oasis (ben presto diventata rivalità fra i fratelli Gallagher) e dal successo commerciale di gruppi come Coldplay. Arctic Monkeys e Franz Ferdinand, l’idea che i Doves rappresentino gli eredi naturali dei padri fondatori del brit-pop quali Stone Roses e House of Love sarebbe molto più condivisa sia al livello di critica musicale che di pubblico.

The universal want is everywhere”.

Il valore della band di Jimi Goodwin e dei gemelli Williams è ancora una volta confermato da “The Universal Want”, il nuovo album pubblicato dalla Heavengly Recordings, a ben undici anni dall’ottimo predecessore “Kingdom of Rust”. Un’attesa lunghissima in cui i Doves, pur non essendosi mai ufficialmente sciolti, si sono arenati in una serie di progetti solisti e alternativi molto deludenti che avevano fatto perdere la speranza di un ritorno anche ai fan più tenaci. Attraverso un dream-pop fumogeno incentrato sui flussi algidi di chitarre e su un uso ben calibrato dell’elettronica, i Doves strizzano l’occhio ai loro primi due album (soprattutto “Lost Souls”), riuscendo come sempre a emozionare con testi evocativi e melodie incisive e al contempo eteree.

So tell me, why are we living this life we’re fitted to?”

Malinconia, rimpianti e ritmi lisergici scandiscono un dialogo impossibile con il tempo perduto. Il cantato ruminativo di Goodwin risulta particolarmente espressivo, è una specie di sonda capace di esplorare lo spazio emotivo e dare voce confortante alle ansie di un’intera generazione (la precarietà affettiva, la solitudine e la difficoltà a percepirsi come comunità). Basti ascoltare le tracce d’apertura e di chiusura, “Carousels” e “Forest House”, per rendersene conto.

We’re just prisoners of these times”.

Non mancano come al solito le sperimentazioni: oltre ai sample elettronici e agli spoken word che arricchiscono il repertorio sonoro della band di Manchester, c’è “Mother Silverlake”, molto eighty, molto U2 del nuovo millennio, ma anche e soprattutto l’ambient-pop caduco e allo stesso tempo espansivo di “Cathedrals of the Mind” e di “Prisoners”, esempi più che mai nitidi di quella combinazione fra melodie spontanee e arrangiamenti ipercerebrali che è da sempre l’impronta stilistica più interessante dei Doves.

Se nella fase post- “The Last Broadcast” (nel già citato “Kingdomf of Rust” in particolare) riaffiorava la luce nonostante il buio imperante, “The Universal Want” è un album apocalittico sia dal punto di vista concettuale che musicale, un ritratto del reale che non lascia speranze se non nella misura in cui sapremo ripartire dalla conoscenza profonda di noi stessi: “In dusty halls / To the hollow shopping malls / To the endless rows of English roses / If you’ve got to believe in someone / Don’t make that person me / If you’ve got to let go of something / Then let go of me”.

80/100

(Emmanuel Di Tommaso)